bossi-salvini– a cura di Luca Proietti Scorsoni –

C’era un tempo in cui la Lega Nord si presentava come un movimento fortemente radicato in una data e circoscritta area geografica ma capace, nel mentre, di affacciarsi in Europa in maniera responsabile, volitiva e, oserei dire, con intenti decisamente costruttivi. Dubbi su tale assunto?

Provo a dissolverli con un lampo di reminiscenza. Al tempo della Convenzione Europea – ovvero il coraggioso ma necessario tentativo di fornire all’Unione la sua prima e vera Carta – i rappresentanti dell’allora governo italiano ad entrare nell’organo costituzionale furono Gianfranco Fini e Francesco Speroni, quest’ultimo una figura di spicco del leghismo di quegli anni. Il contributo che il nostro diede ai lavori della costituente venne definito ottimo da Giuliano Amato, all’epoca vice di Valéry Giscard d’Estaing, presidente della convenzione. Amato si fece un’idea ben precisa dell’operato di Speroni, tanto da elogiare la sua capacità di rimarcare questioni sempre pertinenti e fondate come… “quella sulla necessità di mettersi d’accordo su chi riteniamo incluso nella popolazione di ciascun paese – se anche i cittadini all’estero e gli immigrati residenti – una volta che la popolazione diventa il criterio su cui si pesa il voto in Consiglio di ciascuno Stato”. Ampio virgolettato, me ne rendo conto, ma tuttavia necessario per avere un minimo di contezza riguardo la differente sensibilità europea che risiedeva dalle parti del Monviso. E anche qui, l’indicizzazione localistica ha costantemente avuto una sua pregnanza poiché rimandava ad un’identità comunitaria ben precisa, seppur troppo spesso derubricata, da superficiali analisti politici, come un qualcosa dettato da puro folklore e poco altro. E pensare che oltre alla mitica testata giornalistica il cui nome – Padania – fungeva da evocazione del mito più che da semplice titolo stilato con caratteri cubitali, la Lega poteva avvalersi anche di una rivista culturale – Terra Insubre – unica nel suo genere se raffrontata ad altri periodici orbitanti attorno a realtà partitiche. Unica in quanto articolata su molteplici campi d’indagine, non consueti per le nostre latitudini politiche, tipo quelli riguardanti tematiche di natura antropologica. E poi gli intellettuali d’area che rispondevano ai nomi di Gianfranco Miglio e Gilberto Oneto. Intendiamoci, di certo non figure culturali intese in senso strettamente gramsciano, ovvero organiche al partito, ma uomini indipendenti sempre pronti però a delineare una progettualità visionaria e a tracciare ideali sentieri atti a raggiungere una meta impastata di onirico e pragmatico. Al tempo per di più il cavallo di battaglia era il secessionismo successivamente tradotto nella prassi fattuale, oltreché mediante i lavori parlamentari, in federalismo e devoluzione. Elementi programmatici imprescindibili per comprendere l’essenza di fatto liberista della Lega bossiana. Un liberismo magari sparagnino, a tratti greve, forse un po’ approssimativo, ma la carica era quella, su questo non vi è discussione in merito. Infine giunse la fase politicamente discendente contraddistinta da ramazze, lauree albanesi, investimenti sospetti e, soprattutto, da percentuali elettorali decisamente omeopatiche. Il decadentismo leghista proseguì fin quando Matteo Salvini riprese in mano ogni singolo pezzo del carroccio fatiscente riuscendo abilmente a ricomporlo seguendo nondimeno un altro archetipo culturale di riferimento. D’accordo la tonalità cromatica, che anzi è stata rinvigorita, va bene il Sole della Alpi ad illuminare ancora le speranze dei leghisti 2.0, ma le somiglianze simboliche e ideali con il passato non vanno oltre. Al momento la Lega ha visto diluire la propria identità mediante un’operazione di “nazionalizzazione” che se da un lato sta rendendo il movimento padano una forza diffusa più o meno in tutto lo Stivale dall’altro ha sfilacciato quei legami che hanno sempre tenuto ben saldo il partito con i luoghi della propria epifania. Ovviamente il movimento “Noi con Salvini” è parte integrante di tale progetto. Non solo. Salvini, da politico raffinato, per quanto il personaggio spesso sembra voglia spacciare un’altra immagine di se, è riuscito a far convergere sulla Lega tutta una serie di realtà culturali solitamente vicine al mondo delle destre, diciamo così, antagoniste o radicali. O forse più propriamente sociali e sovraniste. Si pensi a quelle esperienze come “Il Talebano” o “l’Intellettuale Dissidente” oppure a “Il Primato Nazionale”: luoghi nei quali avviene un’interessante elaborazione concettuale che ha contribuito non poco a modellare plasticamente la Lega del nuovo millennio. Certo, capita che Salvini a volte provi a riprendere la trama di una narrazione libertaria ormai datata, ma gli esiti di tale recupero non sono di certo esaltanti. Basti pensare all’ultimo inciampo quando, davanti ad un Alan Friedman esterrefatto, l’attuale segretario ha attribuito a Ronald Reagan l’applicazione di una flat tax nel sistema fiscale americano. A ciò vi è un ulteriore inciso da fare, relativo ad un episodio di cronaca recente: l’incontro con Trump deve essere visto al pari di un tentativo legittimo di registrarsi nel giro delle persone che contano. Eviterei insomma di allargarmi vedendo in questa mossa la confessione d’una comunione d’intenti con gli ideali ed il “modus operandi” del repubblicanesimo profondo. Del resto, in caso contrario, il vero interlocutore doveva essere d’origine texana e chiamarsi Ted Cruz. Di certo Salvini ha una spiccata idiosincrasia per il mercato, emersa anche dalla polemica avviata contro il TTIP, ovvero il trattato di libero scambio USA-UE, ritenuto non tanto un’opportunità da sfruttare da parte delle nostre aziende, quanto un pericolo incombente per l’intero tessuto imprenditoriale italiano. Insomma, nulla di maggiormente lontano da quegli “animal spirits” tipici della rivoluzione reaganiana. Per concludere la Lega Nord, sotto la volontà di Matteo Salvini, ha impresso una svolta totale al suo status tradizionale, mutuando radicalmente il proprio profilo politico verso derive che potremmo definire protezionistiche, in termini economici, e tipicamente antieuropeiste, in senso più strettamente istituzionale.