-A cura di Francesco Severa – Molto si abusa della parola “democrazia”. Un termine impegnativo e dal significato fin troppo sfuggevole che i cuori romantici usano per descrivere quel concetto così idilliaco, onesto e sensato secondo il quale le decisioni importanti in una società vanno affidate alla saggezza degli uomini comuni piuttosto che alla boria di qualche elite intellettuale. E nonostante il fatto che l’accusa che Ignazio Silone fece a questa concezione di governo – “la democrazia è quella cosa che ha consentito a molte galline di spiccare il volo” – sia difficilmente negabile se si guarda alla realtà delle cose, come si può non innamorarsi della democrazia osservando quel grande movimento di popolo che sono le primarie negli Stati Uniti d’America? Se ci fosse affidato il compito di convincere uno scettico seriale del fatto che il governo del popolo sia il migliore strumento per amministrare una comunità, basterebbe portarlo a fare un giro per le fredde praterie dell’Iowa o lungo il corso placido del Mississippi nei mesi concitati della lunga corsa verso le presidenziali americane. Ogni uscio, ogni porta, ogni fattoria, fosse anche la più sperduta tra le piane del Midwest, diventa luogo di incontro tra i volontari dell’uno o dell’altro candidato, pronti a conquistare, armati solo di parlantina e gadget improponibili, la coscienza indecisa di qualche elettore. Non vi è finestra, vetrina, giardino che non sia riempito da manifesti e cartelli che riportano a lettere cubitali il nome del candidato che più degli altri rappresenti l’idea di convivenza e di società, di America e di mondo, che più emoziona. E’, in un certo senso, inevitabile causa di invidia questa orgogliosa partecipazione civica d’oltre oceano per noi, miseri, che viviamo in Italia all’epoca del disprezzo della Politica; forse meglio all’epoca della inconsistenza della Politica. Siamo al punto che nella nostra penisola la parola “primarie” evoca soltanto la diligenza encomiabile della italica comunità cinese nel recarsi nei circoli del partito democratico per contribuire alla scelta del candidato, potremmo dire, più gradito a Pechino. Sarà allora questo sentimento il motivo per cui è impossibile non appassionarsi a questo esercizio di democrazia che è in America, invece, tutto popolare; per questo forse spesso tanto sanguigno quanto grottesco; sincero, perché costringe, almeno una volta ogni quattro anni, anche il candidato più snob a discutere, da pari a pari, con il più cocciuto, ignorante ed onesto dei suoi elettori. E questo duemilasedici, anno della scadenza del secondo mandato – discutibile forse più del primo – di Barack Obama, sembra non deludere le speranze, avendo già visto un’apertura – si è votato già in Iowa e in New Hampshire – della lunga corsa verso le convenzioni repubblicana e democratica di fine estate a dir poco avvincente. Quello che si può innanzitutto osservare è come quella che doveva essere la corsa trionfale degli ultimi raffazzonati resti di grandi dinastie presidenziali, favorite dall’appoggio delle gerarchie di partito, si sia trasformata al contrario per loro in una difficilissima lotta non tanto per vincere, quanto per evitare troppo disonorevoli sconfitte. E’ l’esempio, in campo repubblicano, di Jeb Bush, figlio e fratello rispettivamente del presidente in carica quando a Berlino cadeva il muro e di quello in carica quando bisognava far fronte ai terribili fatti dell’undici settembre, che, pur partendo favorito, in Iowa non è andato oltre il 2,8 per cento, mentre in New Hampshire ha soffiato di poco più di un migliaio di voti il quarto posto al suo delfino, senatore della Florida, Marco Rubio. Dalle parti del partito dell’asinello invece è Hillary Clinton, moglie di Bill, nonché donna di governo nell’amministrazione Obama – ha molto da farsi perdonare -, ad aver creduto a lungo di vincere a mani basse la nomina democratica, quando invece ha trovato sulla sua strada un coraggioso settantaquattrenne, tale Bernie Sanders, senatore del Vermont, che non solo gli ha strappato il New Hampshire con un bel sessanta a quaranta, ma gli ha perfino conteso fino all’ultimo l’Iowa, dove la Clinton ha prevalso per soli quattro delegati. Questa bocciatura, almeno iniziale, di quelli che sembravano essere i candidati favoriti perchè sostenuti dalle gerarchie dei due grandi partiti, ci introduce ad un altro fenomeno interessante, che vede una sempre maggiore estremizzazione dell’elettorato, che premia in maniera sistematica i candidati che con più forza rivendicano un’identità politica ben marcata e definita. E’ quello che avviene per esempio in campo democratico con Sanders, un uomo con l’ossessione per la giustizia sociale; che presiede comizi circondato da tanti giovani di quella generazione immersa nello “yes we can” obamiano; che predica una manichea separazione tra poveri oppressi e un non meglio identificato oppressore, che incarna insieme Wall Street, lobbies e chissà quale altro oscuro potere. Facile capire perchè allora quest’uomo coraggioso, assai austero e professorale in aspetto e modi, pronto alla lotta contro ogni potere, riesca comunque a strappare simpatia e consenso da sinistra ad una Clinton che, volente o nolente, di quegli oppressori che Sanders denuncia è voce e garante, se non parte integrante: a poco può servire allora l’arma vecchia e ormai arruginita del femminismo, che Hillary ha voluto tirare di nuovo fuori in New Hampshire facendo gridare da un palco a Madeleine Albright, prima donna segretario di stato, che “c’è un posto speciale all’inferno per le donne che non sostengono le altre donne” – assai di cattivo gusto la cosa. Ancor più confusa la situazione nel partito dell’elefante, che vede il dibattito spesso egemonizzato dal biondo ciuffo di Donald Trump, che più che un candidato rappresenta un fenomeno sociologico, riuscendo con le sue dichiarazioni sferzanti, scorrette, direi forse spesso politicamente inopportune, a parlare all’anima più profonda di un popolo che vuole prima di tutto sentirsi compreso – e sinceramente guardare il comico sdegno di qualche vestale del progressismo militante è sempre una soddisfazione e questo aspetto non va sottovalutato. A quel Trump dallo stile grossolano, che vuole ad ogni costo dimostrare ai suoi elettori che è lui l’uomo con le soluzioni in tasca, semplici e dirette, unico che si vanta di non dover rispondere a lobbisti e finanziatori visto che quel miliardo che ha promesso di spendere per la sua campagna elettorale lo può prendere direttamente dal suo patrimonio personale, sembra ormai tenere testa solo Ted Cruz, senatore del Texas di origini cubane e conservatore di ferro, arrivato inaspettatamente primo in Iowa. Ed è proprio quest’uomo, che non nasconde nei comizi la sua fede profonda e le sue intransigenti posizioni sull’immigrazione illegale, sui matrimoni omosessuali e sull’Obamacare, di cui è instancabile avversario – per rallentarne l’approvazione tenne un discorso in Senato, parlando ininterrottamente per ventuno ore -, a rappresentare in questo momento, col merito di aver chiamato a raccolta l’elettorato cristiano, in particolare evangelico, l’unica reale alternativa al miliardario newyorchese, visto che Marco Rubio, anch’egli senatore di origini cubane, ha dimostrato, con una disastrosa esibizione durante il dibattito prima del voto in New Hampshire – ha ripetuto una stessa frase più volte, quasi l’avesse imparata a memoria, meritandosi così il nomignolo di “Marcobot” -, l’inesperienza che lo ha penalizzato nelle urne. Vista la situazione, ogni possibile previsione diventa un vaticinio assai azzardato per il GOP. L’unica certezza sta nel fatto che le gerarchie del partito stanno cercando di individuare il candidato capace di contrastare l’ingombrante e per loro sgraditissima figura di Trump e sul quale quindi poter concentrare tutte le forze: Cruz, nonostante finora sia l’unica figura solida emersa in contrasto con il biondo e corpulento uomo d’affari della costa est, rimane comunque lontano da alcuni ambienti di Washington; Rubio, nonostante venga da tanti acclamato quale stella nascente del partito, sembra aver perso molto della forza dell’Iowa e difettare fin troppo di carisma; Bush, uscito a pezzi da queste prime tornate elettorali, è atteso alla prova degli stati del sud, dove la sua macchina elettorale dovrebbe essere più forte. E’ dunque già il prossimo 20 febbraio, con la partita della Carolina del Sud, stato notoriamente conservatore, guidato dall’avvenente e repubblicana Nikki Haley, governatore di origini indiane, da molti indicata come possible papabile per la candidatura a vicepresidente, che si comincerà a capire quale di questi tre nomi si dimostrerà il più idoneo per offrire una reale alternativa a quel Trump, la possibile nomina del quale, alla convenzione repubblicana di luglio a Cleveland, sembra oggi essere la paura più grande per il Grand Old Party. Più semplice pronosticare per il campo democratico una lunghissima battaglia, che forse si concluderà solo con una conta all’ultimo delegato durante la convenzione nazionale democratica in luglio a Philadelphia. Ipotesi questa non certo da deprecare, potendo rappresentare motivo ulteriore di mobilitazione in vista delle presidenziali di novembre. Come otto anni fa contro Obama, anche oggi contro Sanders in Carolina del Sud, i sondaggi danno la Clinton in vantaggio con più del sessanta per cento: non un buon auspicio considerato che otto anni fa, nonostante i sondaggi, lo stato lo vinse il futuro presidente Barack e non lei. E non è forse un atto sublime di libertà, un gesto eroico, poter votare e smentire la certezza statistica dei sondaggi e l’insopportabile imposizione delle gerarchie? C’è qualcosa di poetico in questa idea di democrazia in America; risiede nel fatto che essa non chiama un popolo a riconoscersi in una certa visione politica e sociale, ma impone alle visioni politiche e sociali di confrontarsi con il popolo, anzi direi conformarsi al popolo; risiede nel fatto che essa intende se stessa come una questione di individui, di anime singole, e non di terrificanti e artificiali reificazioni collettive; risiede perfino nel fatto che essa costringe ogni cittadino a confrontarsi con le responsabilità della propria libertà. Ah, quanta invidia per la democrazia degli altri!