Brexit-1024x682– a cura di Filippo Del Monte – Il referendum britannico del prossimo 23 giugno sancirà la permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea od il suo abbandono. Se i sondaggi continuano a parlare di risultati indecifrabili e previsioni impossibili, nelle cancellerie del Vecchio Continente si respira un’aria tesa per l’eventuale vittoria degli euroscettici e dunque della “Brexit”. Tanto la BCE quanto la cancelliera tedesca Angela Merkel si sono espressi in favore del fronte europeista, così come i Paesi comunitari dell’Europa orientale. Da Mosca sono invece arrivati segnali incoraggianti per il fronte euroscettico; proprio nel momento in cui Cameron  – impegnato a ricucire gli strappi tra i Conservatives sorti proprio a causa del referendum – chiedeva agli altri governi di non intromettersi negli affari interni della Gran Bretagna.

Eppure tanto “interno” l’affare della Brexit non è visto che condizionerebbe i futuri rapporti dell’UE con Londra e ridisegnerebbe i rapporti di forza in Europa. L’UE (che notoriamente conta poco nel mondo) priva del “pilastro” britannico rischierebbe di perdere ulteriormente di incisività e di credibilità nello scacchiere internazionale. Con tutti i difetti ed i doppiogiochismi che le si possono imputare, Londra resta pur sempre un attore diplomatico credibile ed una Potenza militare di primo ordine; una sua uscita dall’UE causerebbe non pochi problemi, specialmente ad est, dove le Repubbliche baltiche contano sul sostegno britannico per evitare le ingerenze russe. Dalla Brexit, per restare in ambito puramente diplomatico-militare, la Russia avrebbe tutto da guadagnare perché senza l’ombrello comunitario il governo britannico non potrebbe esercitare la stessa influenza di oggi in Europa orientale e Putin potrebbe erodere ulteriore spazio politico all’UE oltre che rimuovere un fastidioso ostacolo per la sua Politica estera.

Restando invariata la “special relationship” tra Londra e Washington, i problemi per la difesa comune connessi alla Brexit avrebbero una valenza squisitamente europea che difficilmente un’UE in disintegrazione sarebbe in grado di affrontare. Tutto questo perché il risultato del referendum britannico influenzerà in modo determinante il futuro dell’Unione Europea ed una eventuale vittoria degli euroscettici innescherebbe una serie di situazioni in altri Stati (si veda la Danimarca dove si fanno insistenti le richieste per indire un referendum identico a quello britannico)   che potrebbero suonare la campana a morto per l’Europa unita. Non c’è nemmeno bisogno di analizzare gli aspetti puramente economici dell’eventuale Brexit per capire che questo referendum non è come quello greco ed impone delle riflessioni più approfondite e legate alla “ragion di Stato” piuttosto che ai sentimenti.

Proprio la preminenza della “ragion di Stato” ci spinge a soffermarci su come l’Italia si trovi dinanzi all’eventualità nefasta della Brexit: un’uscita di Londra dall’UE porterebbe centinaia di migliaia di italiani emigrati nel Regno Unito (57.000 solo nel 2015) ad avere lo stesso status giuridico degli extracomunitari con tutte le limitazioni del caso e crescenti difficoltà anche lavorative.  Il problema potrebbe essere risolto con un accordo bilaterale ma ci vorrebbe troppo tempo per attuarlo e non garantirebbe comunque le stesse vantaggiose condizioni di oggi. Quella italiana in Gran Bretagna è una delle comunità straniere maggiori, formata in gran parte da giovani studenti-lavoratori, che necessitano di una protezione forte da parte dei nostri uffici diplomatico-consolari. Gli interessi lavorativi, economici e sociali di questi figli d’Italia all’estero sono una priorità; del resto rappresentano energie nazionali incanalate all’esterno, non solo una “fuga di cervelli e di braccia”, ma anche un’opportunità tutta italiana di espansione culturale. La scomoda situazione che verrebbe a crearsi per gli italiani nel Regno Unito dovrebbe essere una condizione sufficiente per spingere Roma a dichiararsi con fermezza contraria alla Brexit. Anche il nostro centrodestra – perfino le sue frange più euroscettiche – dovrebbe sostenere quanti dall’altra parte della Manica si oppongono ad un distacco così traumatico dall’Unione Europea, quanto meno per una questione di interesse nazionale.

Altro importante dossier sul tavolo dei nostri diplomatici è quello legato al commercio. La Gran Bretagna è uno dei primi partner commerciali del nostro Paese in settori fondamentali come quello automobilistico, quello degli elettrodomestici e quello dei preparati farmaceutici; un volume di scambio molto alto che è possibile anche grazie all’esistenza di un mercato unico europeo. Se si dovesse tornare alle dogane negoziare un nuovo accordo bilaterale di libero scambio non consentirebbe comunque di attutire le perdite sul medio periodo. Il sistema d’impresa italiano non è portato all’internalizzazione; se anche a quello poche aziende che esportano all’estero – in gran parte “medie aziende internazionali” e non grandi colossi – si creassero intoppi allora rischieremmo seriamente di dover rivedere il nostro strumento commerciale.

Due fattori, quello migratorio e quello commerciale, che ci spingono a dire no alla Brexit nel modo più assoluto. Ce lo impone il “sacro egoismo” nazionale ben più delle manfrine degli euroburocrati o dei piagnistei della signora Merkel. Ultimo fattore, tutto politico-diplomatico, da tener presente è la funzione d’equilibrio che la Gran Bretagna riveste in Europa: il governo britannico – che sia conservatore o laburista – non permetterebbe mai ad una Potenza continentale di avere il sopravvento sulle altre; è un mantra della diplomazia inglese fin dal 1815. La permanenza inglese nell’UE impedirebbe alla Germania di estendere ulteriormente la sua influenza su Polonia e Stati baltici e dunque spostando l’asse della PESC ad est, a tutto svantaggio dell’Italia. La già sbilanciata Politica estera e di sicurezza comune non porterebbe vantaggi a Roma con la vittoria del “fronte Brexit” il 23 giugno, anzi, questo ci costringerebbe ad affrontare le principali questioni sul tavolo da posizioni di estrema debolezza. Certamente una presenza forte di Londra negli affari della PESC non ci consente di muoverci con la dovuta libertà, ma una sua assenza non garantirebbe più all’Italia quella “copertura indiretta” fondamentale per i nostri disegni politico-diplomatici futuri.

L’eventuale Brexit nasconde un cupo scenario per l’Europa e colpirebbe in modo altrettanto forte il nostro Paese costringendoci a dover affrontare rischi che non erano previsti ed a dover lottare per delle prerogative che credevamo ormai solidamente acquisite.