di Alessio Marsili – Passare dalla posizione sdraiata a quella seduta senza l’ausilio di sostegni, iniziare a gattonare, bere autonomamente tenendo saldo tra le innocenti mani il bicchiere coordinando al meglio tutti i movimenti; piccole conquiste di un neonato di 10 mesi. Ma Charlie Gard è affetto da una rara malattia ereditaria, la sindrome da deplezione del DNA mitocondriale (c.d. Encephalomyopathy mitochondrial DNA depletion syndrome). Patologie di questo genere portano a gravi disfunzioni muscolari – comprese quelle cardiache – e causano danni ad organi vitali come reni e pancreas; sono, purtroppo, numerose e ad oggi per la maggior parte incurabili. Charlie, sostanzialmente, ha malformazioni al cervello, non può muovere braccia e gambe, non può nutrirsi e respirare senza il decisivo supporto di macchinari che lo mantengono artificialmente in vita.

Un destino avverso ed incomprensibile se relazionato alla candida purezza di un bimbo di 10 mesi, un dolore incommensurabile per i genitori. I medici del Great Ormond Street Hospital di Londra, il più importante ospedale pediatrico inglese, constata l’irreversibilità della malattia e l’impossibilità di un miglioramento futuro delle condizioni del minore, con il fine ultimo di scongiurare eventuali dolorosi peggioramenti, hanno chiesto ad un giudice di pronunciarsi sulla legittimità dell’interruzione della ventilazione. I genitori di Charlie, che avevano trovato negli Stati Uniti un trattamento medico sperimentale forse in grado di apportare un miglioramento in positivo della precaria condizione del bambino, hanno presentato ricorso contro l’ingerenza in questioni prettamente famigliari di un – certamente in buona fede – ospedale. L’elemento paradossale in queste eventualità è che, nella definizione del “miglior interesse del fanciullo”, in conformità con il Family Procedure Rules inglese, la volontà dei genitori del minore non assume rilevanza alcuna: il giudice nomina il “guardian”, un rappresentante del minore nel processo che lo riguarda – laddove è impossibilitato ad esprimersi. Cortocircuito: com’è possibile sottrarre all’amore dei genitori, tramite sostituzione con un intermediario (sulla base di non si sa quali competenze e prerogative), la determinazione del contenuto della vacua nozione di “best interest” per un neonato di 10 mesi? Pretestuoso sarebbe, infatti, parlare di accanimento terapeutico perché i dati da dimostrare sarebbe innumerevoli – trattamento inefficace rispetto all’obiettivo, rischio elevato, particolare gravosità per il paziente, ulteriore sofferenza, eccezionalità dei mezzi adoperati, eccetera. Il giudice, dunque, sulla base di un criterio arbitrario e con l’apporto valutativo della scienza decide freddamente nelle aule di un tribunale che quell’ipotetico bimbo (Charlie nel nostro caso) deve essere soppresso. Soppresso, seppur forte, è il termine adatto. Una asettica sentenza decontestualizzata, autoritaria, contro il diritto alla speranza; speranza, pur fievole, di dare a Charlie una possibilità, un’ultima chance di Vita. Sì, perché la Vita – senza sindacare sulla sacralità della stessa, pur non subordinandola alla “qualità” – è sempre degna d’esser vissuta.

Non può stupire l’esistenza di forte scetticismo, se non aperta ostilità, nella gente del nostro polo alla concezione progressista di libertà e giustizia, che impone per pronuncia di legge la condanna a morte certa di un bambino che i genitori vorrebbero far vivere. Forse perché mantenere Charlie in quello stato rappresenta un costo “eccessivo”? Il diverso valore da noi attribuito alla Vita umana è antitetico, fortunatamente, alla più becera mercificazione dell’essere umano. Confermata anche in appello nel Regno Unito, è intervenuta nel merito la Corte Europea dei diritto dell’uomo di Strasburgo. Ai genitori d’altronde, che avevano denunciato le decisioni delle corte britanniche per interferenza iniqua e sproporzionata nei loro diritti genitoriali e violanti il diritto alla vita di Charlie, non restava che la Corte CEDU. Anche quest’ultima, pronunciatasi pochi giorni fa, ha rigettato il ricorso dei genitori del bambino autorizzando i medici a “staccare la spina” quando lo riterranno più opportuno senza coinvolgere i genitori nel processo decisionale. La liceità della procedura di sospensione dei trattamenti artificiali per Charlie costituisce l’affermazione dell’utilità, della funzionalità e della strumentalità sulla Vita umana; si tende a rinunciare, a cancellare le spiacevoli condizioni di sacrificio, abnegazione, dolore, non concedendo protezione agli individui malati (e per ciò considerati “difettosi”); una criminosa discriminazione che sfocia inevitabilmente in un appiattimento totale dell’autodeterminazione del soggetto con i diritti individuali, tipico delle democrazie pluralistiche contemporanee. E’ utile ricordare che il costituzionalismo europeo nasce originariamente per sottrarre alla ragion di stato una sfera di vita materiale individuale nella quale si potessero sviluppare compiutamente capacità e personalità dei soggetti; tramite il rispetto dell’inviolabilità del diritto alla vita (sancito nell’art. 2 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo) è garantito il godimento delle risorse di libertà previste nelle leggi fondamentali. La vicenda del piccolo Charlie, però, mette fine a questo processo storico, attribuendo ad un giudice la possibilità di decidere – quasi come Dio – se sarà vita o morte. Certo, affrontare temi etico-morali è sempre delicato e ci si muove come elefanti in una cristalleria, perché si toccano sensibilità ed esperienze pregresse di ciascuno di noi. In un’Europa in cui è divenuto un inalienabile diritto la costante rivendicazione di diritti inalienabili, si marcia per i migranti, per gli animali, per gli omosessuali e non per la vita. La perdizione dell’Occidente fa da contraltare alla ruralità della nostra vituperata Italia, vero rifugio della ragionevolezza contro le degenerazioni provenienti dall’Europa nordica – e possiamo ritenerci fortunati per questo. Charlie resta vivo, siamo noi i verti morti. Un’Europa, insomma, che più che marciare marcisce.