A cura di Francesco Severa – Prima arriva il tempo del dolore. Il cupo smarrimento che si prova quando ci si accorge, increduli e stupiti, che Emanuele Morganti è morto, vittima di un gesto crudele e inumano. Un ragazzo di vent’anni a cui è stato soffocato il sorriso a colpi di spranga. Vorremmo rifiutarci di credere che possa realmente esistere una tale malvagità, capace di risucchiare gli uomini e renderli colpevoli di azioni così efferate e aberranti. Vorremmo rifiutarci di credere che questa stessa malvagità abbia operato così vicina a noi, in luoghi così familiari, che abbiamo sempre immaginato immuni dal dolore. Vorremmo urlare al mondo la nostra afflizione per l’ingiusto destino di un innocente. La morte però è questione troppo seria per essere offesa da tante parole gettate al vento. La vera dignità sta nel silenzio; in un rispettoso silenzio, che è forse la testimonianza più forte della viscerale natura degli abitanti di questa aspra terra di Ciociaria, capaci sempre di credere contro ogni speranza.

Arriva poi il tempo della rabbia. Un sentimento umano e necessario, perché esprime il nostro disgusto per ciò che riteniamo inaccettabile. Inaccettabile è pensare che un ragazzo possa essere stato vittima di un così brutale omicidio nel pieno centro di una città, davanti ad un locale molto frequentato. Il problema non è l’indifferenza dei singoli, perché nessuno può dire con certezza quale sarebbe stato il suo comportamento davanti ad una scena che in qualsiasi persona genererebbe terrore. A nessuno può essere imposto di fare l’eroe. L’eroismo non è mai un dovere, ma fare il proprio dovere è forse la più alta forma di eroismo. Ed è qui la vera questione. Oggi viviamo in un mondo in cui l’indifferenza ha raggiunto una dimensione sociale. Perfino le istituzioni, continuamente svilite e indebolite, ormai sembrano voler sfuggire alle proprie responsabilità, che sistematicamente imputano ad altri. Ciò ha significato polverizzare quei legami profondi che ci rendono popolo. Senza quei legami ci ritroviamo soli e dunque più vulnerabili anche a queste situazioni di violenza incontrollata. La responsabilità richiede coraggio, questo è vero. Ma se non la assumiamo su di noi, per le piccole come per le grandi cose, non possiamo certo aspettarci che siano gli altri ad assumersela.

Deve poi sempre arrivare il tempo del perdono. Perdonare significa stringersi intorno al dolore di una famiglia che ha subito la perdita più terribile e non permettere che possa accadere di nuovo. Perdonare significa liberarsi dalla schiavitù della vendetta, che rischia di farci inghiottire tutti nel buio di questa violenza. Perdonare significa lavorare per ricucire le ferite profonde che questo avvenimento spregevole ha creato nei cuori di una comunità intera. A noi resta dunque il compito di essere uomini fino in fondo, certi che da ogni bassezza si ha il dovere di rialzarsi e sublimarsi sopra ogni elevazione.