-di David Crescenzi- Ha sicuramente destato stupore un tweet del 18 maggio scorso con cui Marine Le Pen si è detta “consapevole” che le posizioni anti-euro perorate dal suo partito nella recente campagna presidenziale hanno “notevolmente allarmato i Francesi, e noi ne dobbiamo tenere conto”. Tuttavia, ancor più esplicita è risultata la successiva presa di posizione di Bernard Monot, stratega economico del FN, il quale, pur continuando a “pensare che l’euro non sia tecnicamente sostenibile”, il 21 maggio ha dichiarato al Telegraph che “non ha senso per noi insistere ancora sul tema. D’ora in poi proporremo di rinegoziare i trattati con l’Unione Europea per avere un maggiore controllo sulle regole del bilancio e sulle banche”. Apriti cielo! Soprattutto, in casa Lega dove però Claudio Borghi, responsabile economico del Carroccio, ha subito gridato alla “bufala”, riportando sulla sua pagina facebook una dichiarazione della stessa Le Pen, ripresa dall’Huffington Post francese, in cui la leder del FN sembrerebbe aver sminuito la questione ribadendo la bontà della sua battaglia per la sovranità monetaria, seppur evidenziando che il tema dell’Euro sarà oggetto di dibattito in un prossimo congresso del partito. Un dibattito, ha precisato la Le Pen, che si svolgerà “senza tabù”.
Ciò posto, possiamo anche concordare con Borghi sul fatto che il FN non abbia ancora abbandonato la sua posizione anti-euro (almeno nettamente), ma francamente parlare di “bufala” appare eccessivo: la notizia di fatto c’è. E risiede nella stessa messa in discussione dell’obiezione all’Euro che, come osservato da diversi analisti, sarebbe anche sensata per un movimento il quale, portando a compimento quel processo di “dediabolizzazione” dal retaggio di Le Pen padre, si ponesse ora come forza esponenziale credibile per il centro-destra francese. Sennonché, ciò costituirebbe anche una presa di distanze netta da uno dei temi più avvertiti dal fronte sovranista europeo e, in particolare, dal segretario federale Matteo Salvini, che ne ha fatto addirittura un discrimine per future alleanze. Del resto, non è un caso che proprio lo scorso 21 maggio il Congresso di Parma abbia approvato una mozione, a firma Borghi, che impegna una volta in più la Lega “a contrastare l’attuale gestione della politica monetaria europea, recuperando spazi di Sovranità Monetaria indispensabile allo sviluppo di una politica economica e sociale conforme alla Costituzione”. Una posizione, questa, per nulla compatibile con quella di Berlusconi che invece propone la “doppia moneta” sul modello dell’AM-Lira del ’43-’53 (Allied Military Currency), ossia una sovranazionale (l’Euro) per regolare i rapporti tra import-export e una divisa nazionale (la Lira) per l’economia interna.
Ora, posto che qui appaiono condivisibili le critiche alla infattibilità della proposta berlusconiana (sia perché essa contrasterebbe con la competenza esclusiva dell’UE in tema di politica monetaria ai sensi degli artt. 3 e 128 TFUE, come rilevato da Borghi, sia perché Paesi quali l’Argentina che hanno adottato la doppia valuta non hanno dato buona prova, come rilevato da Alesina e Giavazzi, sia perché in questo modo dovremmo comunque continuare a pagare il debito pubblico e le transazioni con l’estero in Euro con la conseguenza di prenderci “solo gli svantaggi” del ritorno alla divisa nazionale, come rilevato da Rinaldi), tuttavia, chi scrive neppure può esimersi dal muovere alcune critiche alle proposte della Lega che, oltre a rischiare di risultare insostenibili, potrebbero vanamente distruggere il centro-destra. Infatti, posto che l’art. 50 del TUE rende sicuramente possibile uscire dall’Eurozona (perché la procedura di recesso dall’UE comporta che tutti i Trattati cessano di avere vigore per lo Stato recedente, comprese dunque le norme sull’Unione Economia e Monetaria, nei modi previsti dagli accordi di recesso), tale scenario non appare certo consigliabile.
In primo luogo, poiché, se tornassimo a una divisa nazionale più competitiva (in quanto deprezzata rispetto all’Euro), l’idea che la svalutazione rappresenti la panacea a tutti i mali sarebbe insincera: sia perché non è necessariamente vero che un Paese di trasformazione come l’Italia guadagnerebbe di più dalle merci esportate che da quelle importate (le quali ultime non sono solo l’energia e le materie prime, che secondo Borghi avrebbero un costo relativamente trascurabile su quello dei complessivi processi produttivi, ma anche i semilavorati e i macchinari industriali importati dal nostro Paese); sia perché una parte consistetente del nostro debito, non solo pubblico ma soprattutto privato, è regolato da diritto estero (come tale non convertibile in Lire dopo l’abbandono dell’Euro ma da ripagarsi in valuta più forte, con la conseguenza che gran parte dei titoli detenuti da banche e aziende italiane si tradurrebbero in minori attività e, quindi, in danno ai loro stati patrimoniali), oppure, nel caso dei titoli di Stato di durata superiore a 12 mesi emessi dal 2013, è regolato da “clausole CAC” (ossia con possibilità per il 25% dei sottoscrittori di opporsi alla convertibilità nella nuova valuta, con la conseguenza che dovremmo ripagarle in Euro).
In secondo luogo, se è vero come sostiene Borghi che non tutte le transizioni a un nuovo sistema valutario deprezzato comportano un’inflazione galoppante (v. l’Italia del 1993), è vero anche che esse spesso determinano una crescita tutta dipendente dai maggiori profitti delle imprese in grado di esportare (che non sono la gran parte delle P.M.I. tradizionali italiane), ma senza abbattimento del tasso di disoccupazione e senza crescita dei salari reali (v. proprio l’Italia del 1993, come rilevato da un vasto studio del 2015 di Realfonzo e Viscione il quale osservò che questo obiettivo venne raggiunto giustapponendo alla crescita delle esportazioni una politica avvilente della domanda interna tramite blocchi salariali: d’altro canto, sebbene questo risultato non possa dirsi necessitato, come osservato da Perotti in relazione alla Svezia del 1993, alla svalutazione dovrebbero seguire anche politiche espansive di sostegno ai redditi interni, come rilevato da Garbellini e Brancaccio, ma è difficile che ciò possa avvenire senza investire sulla competitività della gran parte di quelle P.M.I. italiane che non producono beni insostituibili rispetto a quelli offerti dai Paesi emergenti a costi troppo bassi da essere da noi eguagliati, come rilevato da Gallegati, e il problema sarà proprio quello di rinvenire le risorse per farli questi investimenti in un mondo che non ci farà più credito, se non a tassi speculativi, ove lo impoverissimo riconvertendogli il debito in valuta deprezzata -il che danneggerebbe soprattutto i risparmiatori interni-).
In terzo luogo, ci si chiede poi se convenga procedere nel mondo da soli, per confrontarci con colossi politici ed economici senza più lo scudo di una comunità sovranazionale comunque forte come l’UE (che attualmente vale circa il 20% del PIL globale). Infatti, che potere contrattuale avrebbe l’Italia con attori giganteschi come gli USA che, per dirla con Rossini, in tempi di leader come Trump non avrebbero alcun problema ad opporre restrizioni commerciali ritorsive ad ogni nostro tentativo di voler praticare politiche protezionistiche contro il resto del pianeta.
In definitiva, con buona pace dei vari Borghi e Bagnai, non sorprende che gran parte di quegli stessi premi Nobel assai spesso a sproposito citati dalla Lega come dei No-Euro (v. Krugman, Stiglitz, Mirrlees, Sen, etc.), abbiano recentemente rimarcato, proprio in concomitanza con le presidenziali francesi, che uscire dall’Euro sarebbe catastrofico per i Paesi membri. Quindi, anche a costo di ingaggiare uno scontro diretto con la Germania, l’unica soluzione sostenibile rimane quella dell’aggiustamento delle politiche di convergenza europee che, per dirla sempre con Gallegati, non possono che passare per l’abbandono di una assurda austerity perpetrata in assenza di una politica fiscale e di indebitamento comuni: infatti, solo queste ultime, nel fare dell’UE una realtà di tipo più federale che tecnocratica (e asservita al modello di sviluppo economico tedesco), le consentirebbero di agire come stabilizzatore macroeconomico autenticamente solidale al pari del federal government statunitense in favore delle differenziate realtà che sorgono al suo interno. Soltanto questa è la politica sensata che un centrodestra di respiro nazionale e insieme europeo, che non insegua solo la pancia degli arrabbiati, dovrebbe perseguire. Senza illusorie velleità doppiomonetiste o ingenuamente sovraniste. A suo modo, perfino una (forse) rinsavita Le Pen ci ha suonato la sveglia: noi, adesso, che faremo?