-di Dario Lioi- Il piano culturale lungo il quale l’Italia giace smaterializza qualsiasi bagliore di lucida riflessione. Tentare dunque di offrire un commento d’analisi di valore sarà ardua impresa, ma le contingenze obbligano a provare quantomeno a fallire nel tentativo. E’ di ieri la notizia, rimbalzata a ritmi sfrenati sui vari media, della discussione e presentazione alla Camera di un nuovo, l’ennesimo, ddl avente ad oggetto la lotta al Fascismo. Come si faccia ad ingaggiare un duello con un nemico sconfitto settantadue anni or sono risulta difficilmente concepibile in un’ottica realista, meno che mai propriamente culturale. Il vezzo tutto italiano di immanentizzare in un normativismo pseudo-kelseniano semplicistico e puerile il dato storico, senza un’analisi lucida dei fatti, genera mostri giuridici. La costituzione del 48, come spiega Carlo Galli, è una costituzione politica. E’ politica poiché guidata da un vettore, che ne indica l’interpretazione autentica. Essa si fonda, oggi (dopo la modifica apportata dal secondo governo Berlusconi per ciò che concerne gli eredi di Casa Savoia), sulla identificazione e sul contrasto a un nemico: il Fascismo. Il dato è accertabile con l’inserimento della XII disposizione transitoria e finale recante il divieto di ricostituzione del disciolto partito fascista. Sulla base di questo principio assurto a divieto, la consequenziale legge Scelba, seguita dalla legge Mancino. Che all’alba della Repubblica, e al tramonto di una guerra civile, i vincitori, sopraffatti da uno zelante liberal-comunismo, optassero per la costituzionalizzazione del nemico è un dato accettabile. Il timore che i reduci, con i voti dei quali Togliatti pattuì amnistia in cambio del sostegno all’appuntamento referendario del 46, potessero ardire ad un colpo di mano è comprensibile. L’effettiva messa in opera del vettore risulta però stridere con l’effettività costituzionale, culturale e scientifica. Se da una parte i principi liberali della prima parte della costituzione sanciscono l’uguaglianza formale e sostanziale dei cittadini, nonché il diritto ad esprimere in qualsiasi forma il proprio pensiero, non si vede come possa realizzarsi l’eccezione qualificativa dell’apologia di fascismo. Cos’è il fascismo? Un fenomeno italiano, un fenomeno europeo o un fenomeno latiino-mediterraneo? Il populismo è fascismo o il fascismo è populismo? Il fascismo è violenza o la violenza è fascista? E’ apologia di fascismo l’interpretazione di Madonna nel film Evita, o lo è ricordare Nasser? E’ apologia di fascismo l’art.7 della costituzione, contente il mantenimento dei Patti Lateranensi firmati da Mussolini? E’ apologia di fascismo assegnare Pirandello come autore del tema dell’esame di maturità? E’ apologia di fascismo l’esame di maturità stesso, voluto e ideato dal filosofo attualista Giovanni Gentile? E’ apologia di fascismo il liceo classico da lui istituito? E’ apologia di fascismo parlare di corporazioni? E’ apologia di fascismo l’intervista sull’antifascismo di Giorgio Amendola con la sua descrizione del consenso delle masse ottenuto dal Duce? E’ apologia di fascismo viale Guglielmo Marconi? E’ apologia di fascismo il revisionismo storico compiuto dalla scuola defeliciana? Gli esempi potrebbero continuare, tale è l’estensione del paradosso semantico, nonché contenutistico del reato ascrivibile. Si scade nel grottesco. Le etichette di fascismo attribuibili, più o meno a sproposito, fanno il paio con quelle delle bottiglie che si vorrebbero vietare di vendere. Che ridicola oggettistica folkloristica possa richiedere l’attenzione del legislatore crea sconcerto specialmente da un punto di vista squisitamente estetico e del gusto. Nessuna persona dotata di senno potrebbe mai avere il terrore dello squadrismo armato dei portachiavi o degli accendini. Nell’epoca del trionfo irrefrenabile dell’economia di mercato tutto è merce, e che un simbolo ridotto a merce possa addirittura oggettivarsi in una promulgazione legislativa di reato è l’apoteosi del ridicolo. Quelle elites spirituali del Novecento, così definite da Biagio De Giovanni, siano state esse fasciste o comuniste, liberali o azioniste, appartenevano ad un’Italia altra, diversa. Lo stesso regime, nella costituzione delle leggi fascistissime del 1925 reprimeva in termini legali le opposizioni in un’ottica di salvaguardia della sicurezza nazionale, della tutela dello Stato. Fu in funzione ciò, di questo assunto giuridico ampiamente estendibile al sentore dell’epoca storica allora vissuta, che il fascismo poté tramutarsi in regime. Nessuna inafferrabile locuzione semantica nel codice penale, nessun inserimento di un nemico meglio identificato e identificabile. Errore che verrà commesso nel 1938 con l’approvazione delle inconcepibili leggi razziali. E’ innegabile che all’epoca il pericolo del bolscevismo, interpretato come complementare del liberalismo, potesse costituire agli occhi della classe dirigente fascista italiana un fattore di destabilizzazione e sovvertimento dell’ordine statuale, come è innegabile d’altronde l’impronta ideologica che logicamente guidava l’azione. E di ideologia anche oggi si tratta, ma senza allarmanti percentuali numeriche, men che meno utopici piani rivoluzionari di un redivivo fascismo italiano. Una sinistra al collasso, che implode sul terreno di quella identità da sempre odiata nell’aggettivazione nazionale ma mai partitica, utilizza maldestramente l’ennesima distrazione di massa per celare i misfatti e le gravi colpe che l’incompetenza, l’ignoranza – o forse, come direbbe il Professor Sapelli, la stupidità – di una inetta classe dirigente dovrebbero fare risaltare agli occhi, ormai fuori dalle orbite, del popolo italiano. Che l’onorevole Fiano sia figlio di una tragedia appartiene alle sfere della storia, prima ancora che della morale, ma che ci si debba ridurre alla farsa, tanto per citare un comunista vero, è onestamente troppo.