-di Luca Proietti Scorsoni- Intendiamoci, prendere spunto da Cossutta per parlare del Cav non è proprio il massimo, mi rendo conto. Fatto sta che una volta al compagno Armando capitò di fare una considerazione di buon senso (cosa rara in certi ambienti di sinistra). In poche parole il nostro, più o meno, disse così: i discorsi devono esser valutati non solo per quel che si dice ma anche per tutto ciò che viene omesso. Giusto. E cos’è che Berlusconi non ha pronunciato l’altro giorno all’Ergife? Moderato. Non l’ha detto. Evviva. Può apparire come un’inezia ma credetemi: non lo è. Per tanto, troppo tempo quella che è una naturale inclinazione comportamentale è stata travisata in una nobile categoria politica e culturale. E tutto questo nonostante una parolina in grado di condensare il nostro essere ci fosse sempre stata ed era lì, pronta al buon uso: liberale. E l’altro giorno tale termine il Cav l’ha detto, altroché: più e più volte. Dandogli un senso ovviamente. Non solo “flatus vocis” ma carne e sangue, ontologia lessicale se mi è consentita l’espressione. Era da molto che questo non accadeva ed ora che è avvenuto ne traggo un senso di sollievo e soddisfazione. Il Berlusca – si, lo chiamo così: mediante l’epiteto affettuoso, guascone e irriverente che meglio di altri fotografa l’energia costruttiva e dissacrante del Presidente – il Berlusca dicevo, nel suo intervento, ha snocciolato una serie infinita di punti cardine del programma, esclusivamente forzista, per Roma e non solo. Al primo “meno tasse” mi è salito il groppo in gola, al secondo “meno Stato” la lacrimuccia era li li per scendere, ma al risuonare del monito che “al centro c’è l’individuo e la sua sacra libertà di scelta” bé, lo ammetto: ho iniziato a spellarmi le mani e ad urlare di brutto. Ed ecco che il cerchio si stringeva: il leader, i punti cardinali della sua missione politica e la base. Già, la base. Spesso bistratta dai media progressisti, da una certa narrazione ideologica e perfino da servizi partitici deviati da zappe e coste. Che belli questi ragazzi: carichi al punto giusto, sempre pronti ad incitare la loro guida senza però passare per lacchè o galoppini. Ne ho conosciuti molti: propositivi, determinati, vogliosi di contribuire alla crescita del movimento e del loro Paese. Ecco, dimenticavo: qui non si parlava di “questo Paese” ma del “nostro Paese”. E, se mi consentite, la differenza è palpabile. Per dare il senso plastico di coloro che ho provato a tratteggiare non posso che riportare le parole di una ragazza – e mi perdonerà se pubblico il suo pensiero – al termine della kermesse: “Il mio primo intervento davanti a 700 persone, la cena con il Presidente, la premiazione della mia proposta.. Vedi, questo è quello di cui parlavo ieri. Ci ho messo 11 anni, ma alla fine “qualcuno”, senza che io lo chiedessi, si è accorto di me. Queste sono le soddisfazioni più grandi”. Si, probabilmente siamo davvero la parte migliore del (nostro) Paese.