brexit– di Alessio Marsili – Habemus data. Una tempistica indicativa, meglio. Mentre, infatti, i riflettori delle cancellerie europee e dei media erano puntati su Budapest e sul risultato della consultazione referendaria proposta dal governo Orban, a Birmingham si è svolto l’annuale congresso del Partito Conservatore. Theresa May, interrotta innumerevoli volte dagli applausi della folta platea di delegati Conservatives cui si rivolgeva, ha effettuato il primo annuncio ufficiale del governo dopo il voto del 23 giugno scorso. Ed è un annuncio storico: il Governo di Sua Maestà si impegna ad invocare entro Marzo 2017 l’articolo 50 del Trattato di Lisbona, strumentale a recedere formalmente dall’Unione Europea. Dal momento che il suddetto Trattato prevede una durata negoziale di massimo due anni, la data definitiva di uscita della Gran Bretagna dall’UE avverrà – presumibilmente – nel marzo 2019, prima delle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo. La passione, l’enfasi, la retorica, la celebrazione della grandiosità dell’Impero e del ruolo globale rivendicato dalla Gran Bretagna, di cui era insito il discorso effettuato dal leader dei Tories hanno conquistato il pubblico. Immediata la reazione delle istituzioni comunitarie: il presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk ha affermato che quello della May è “un annuncio benvenuto che fa chiarezza”.

“Brexit means Brexit” è probabilmente lo slogan che, fin dal giorno del proprio insediamento al numero 10 di Downing Street, la premier ha maggiormente ripetuto. La seconda donna a ricoprire la carica di Primo Ministro oltremanica – dopo Margaret Thatcher – è stata esplicita: “Ora facciamo sul serio; chi auspica un voto parlamentare per annullare il risultato del referendum vuole sovvertire l’ordine democratico“ ha tuonato dal palco, criticando apertamente chi non ha ancora accettato l’esito della consultazione. “Non seguiremo né il modello norvegese né quello svizzero; quello che avremo sarà un accordo fra un Regno Unito sovrano e l’Unione Europea” ha poi aggiunto la May. Data l’eccezionalità della circostanza e l’imprevedibilità delle conseguenze, gli esperti avevano paventato plurime soluzioni giuridiche da perseguire nel corso delle negoziazioni: eppure, né il modello “norvegese” – partecipazione ai benefici economici e commerciali del mercato economico senza far politicamente parte dell’Unione, accettando alcune direttive e limitazioni di sovranità – né quello “svizzero” – dove oltre 120 accordi bilaterali poggiano su quello di libero scambio siglato nel 1972 – soddisfano la signora Premier.

Il divorzio Londra/UE lascia ancora molte incognite ed aver sciolto l’arcano sulla tempistica non chiarifica le modalità di svolgimento del processo. Ancor di più se il Primo Ministro afferma apertamente di voler tener nascoste le proprie carte da giocare a Bruxelles, per dirimere dubbi e perfezionare la preparazione, oltre che guadagnare posizione negoziale. Quale sarà, dunque, il primo passo? Il “Great Repeal Act”, inserito nel programma legislativo del prossimo anno. Attraverso quest’ultimo l’enorme quantitativo di norme comunitarie recepito dall’ordinamento inglese nel corso degli anni viene temporaneamente sospeso al fine di scrutinare, emendare, perfezionare od abrogare le leggi europee. Le norme verrano, successivamente, convertite in leggi nazionali a tutti gli effetti. Certo, approvarlo non sarà facile: oltre alle resistenze interne al Partito Conservatore, c’è da superare lo scoglio scozzese ed il voto della Camera dei Lord – a maggioranza pro Unione. Il Regno appare più che mai disunito.

Occorre esser chiari: per Londra, invocare l’articolo 50 senza aver elaborato una roadmap precisa può essere una trappola. Risulta inverosimile che in soli due anni si possa negoziare un accordo economicamente soddisfacente; molti rimproverano a Theresa May di non aver ottenuto dalla controparte garanzie adeguate. La Commissione Europea è, infatti, intenzionata ad assicurarsi che la Brexit non porti alla dis-integrazione europea ed alla fine del progetto comunitario: il danno economico, cui entrambi le parti saranno disposti a sottomettersi pur di non sacrificare i rispettivi interessi politici, potrebbe essere più pesante per il Regno Unito che l’Unione Europea. Per Londra, d’altronde, il continente è un mercato di gran lunga più importante di quanto non lo siano le isole britanniche per Bruxelles; come ogni negoziato politico, dunque, sarà inevitabile cedere terreno su alcuni fronti per guadagnarne su di altri. Frasi ad effetto pronunciate alla platea come “Le nostre leggi saranno scritte a Londra e non a Bruxelles” – e molte, molte altre – infiammano il pubblico, scongiurano rivolte interne al partito e garantiscono continuità al Governo; ma restano parole. Da Marzo a parlare saranno i fatti, e la battaglia si prospetta ardua.