A cura di Filippo Del Monte – Sindaci che si ribellano, cittadini esasperati sul piede di guerra, prefetti sotto accusa ed un governo che ammette di fatto il proprio fallimento nella gestione dell’accoglienza sono tutti fatti che evidenziano come l’emergenza immigrazione – piaga politico-sociale-economica dell’estate 2017 – non possa essere risolta con gli strumenti tipici della politica interna. Essa è piuttosto una crisi che ha le sue origini all’interno di un meccanismo politico sovranazionale perverso – le “quote migranti” comunitarie – e nella crisi geopolitica dello scacchiere mediterraneo-levantino. L’esplosione della “bomba sociale” in Italia ha innescato la miccia della “bomba diplomatica”.

La Francia di Macron chiude i propri porti al naviglio di ONG e Triton; Austria e Slovenia chiudono i valichi di frontiera con l’Italia; la Turchia ha bloccato la “rotta balcanica” grazie al pagamento in monete sonanti della UE; la Spagna tramite un accordo bilaterale con il Marocco ha trasformato la propria enclave africana di Ceuta e Melilla nel “muro” d’Europa. Resta solo l’Italia a fare da “spugna”, ad assorbire tutto il peso degli sbarchi in termini umanitari, sociali ed economici.

Dal governo fanno sapere di conoscere bene la causa di tutti i mali: l’anarchia in Libia. Scrostando il guscio retorico dei roboanti comunicati del ministro degli Interni Minniti ci si rende conto che nessun risultato in Libia è stato raggiunto, nulla con le autorità libiche – resta da vedere quali – è stato pattuito e nulla sarà deciso fintanto che nella nostra Quarta Sponda non si costituirà un governo riconosciuto.

Sul terreno l’Italia – unica Potenza occidentale ad avere un’ambasciata in funzione a Tripoli – sostiene il malfermo governo di al-Sarraj. L’esecutivo tripolino – negli ultimi mesi vittima di attacchi armati d’una certa rilevanza – è la “faccia pulita” delle milizie rivali che si scontrano nella capitale. Sarraj non detiene infatti un potere reale, anzi, egli è ostaggio delle milizie di Misurata e Zintan, uscite vincitrici dallo scontro con i paramilitari di Tripoli, legati a doppio filo con la malavita locale e gestori dei racket illeciti lungo la costa. Le milizie sono eredi della falange più agguerrita della “rivoluzione” del 2011, espressione politica di un islamismo militante anti-occidentale e che non vede di buon occhio la “stampella” italiana (e statunitense) che sorregge Sarraj – un islamista moderato – a Tripoli. Di pari passo si rafforza la posizione del generale Haftar, uomo forte della Cirenaica appoggiato dall’Egitto e dalla Russia – con il sostegno informale di Francia Francia Gran Bretagna – e comandante di una forza militare fondamentale per gli equilibri libici. La sconfitta della filiale libica dello Stato Islamico a Sirte ha messo fine alla fase di cooperazione forzata tra i due gruppi di potere riaprendo la ferita della guerra civile. Gli accordi tra Tripoli e Tobruk finora stipulati sono stati niente più che una messa in scena per evitare le “infiltrazioni” occidentali in quelli che sono considerati a tutti gli effetti “affari interni” libici. La pacificazione sembra lungi dall’essere raggiunta e sarebbe quanto di meglio l’Italia possa invece sperare per trovare un “modus operandi” di gestione bilaterale dell’emergenza immigrazione. Finora infatti non poche milizie libiche – specie della costa tripolina – hanno accumulato ingenti somme di denaro con il racket dell’immigrazione clandestina: dall’arrivo nel deserto del Fezzan fino al trasporto dei clandestini verso le coste italiane è un continuo scambio di “merce” e soldi tra milizie e bande criminali, con la connivenza dei potentati locali statali o parastatali. L’endemica debolezza politica e militare di Sarraj permette ai capi locali di costruire dei feudi impenetrabili dove ogni genere di attività criminosa trova protezione purché vi sia un profitto anche per i ràs della regione. La “feudalizzazione” delle aree interne di Tripolitania e Fezzan crea una zona grigia in cui esercitare qualunque tipo di controllo diventa impossibile. È troppo difficile arrivare ad un accordo italo – libico sul modello di quello contenuto nell’ormai decaduto Trattato di amicizia perché troppi “poteri forti” in Libia guadagnano con la gestione dell’immigrazione clandestina e troppe poche sarebbero le garanzie di successo nel contrasto che le autorità tripoline possono al momento dare. La vera battaglia sull’immigrazione Roma dovrebbe combatterla in Libia e non a Bruxelles; il contrasto dell’immigrazione clandestina e la fine di questa “invasione” passano attraverso la pacificazione della Libia. Come già scritto in altri articoli, la guerra libica e gli sbarchi dei migranti sono problemi collegati dove la soluzione del primo aprirebbe la strada anche alla soluzione del secondo. L’opera di mediazione tra le parti – che sono Roma può portare avanti – deve essere risolutiva, a costo di sacrificare l’appoggio incondizionato dato fino ad ora a Sarraj. È compito di Roma e non di altri individuare la figura di raccordo tra Tobruk e Tripoli con l’obiettivo di ricostruire il tessuto statale libico senza compromessi od abboccamenti con la criminalità organizzata locale ed i sostenitori interessati dell’accoglienza coatta – ONG in testa – che infestano le nostre acque e le nostre coste. Senza una Libia pacifica, forte e filo-italiana a poco serviranno i codici ed i regolamenti per le ONG o le tante sfuriate poco credibili dei rappresentanti italiani in sede comunitaria.