Federico Eichberg – di Filippo Del Monte – Sabato 21 novembre, nei locali della Fondazione “Italia Protagonista” si è svolta la prima lezione dell’area strategico-politica della Scuola di formazione politica organizzata dalla Fondazione Alleanza Nazionale. Relatore della giornata è stato Federico Eichberg, esperto di relazioni internazionali dell’area di centrodestra. Proviamo a riassumerne i contenuti e gli interessanti spunti di riflessione in poche righe.

Nel 1946 George Kennan, con l’omonimo rapporto, aveva tracciato le linee essenziali della strategia sovietica. La dottrina strategica dell’URSS era definita “offensiva e difensiva” allo stesso tempo in quanto era l’unica attuabile per una Potenza il cui territorio si estendeva per 1/5 delle terre emerse. La Guerra fredda, questo scontro tra due sistemi e due visioni del mondo inconciliabili, si protrasse fino al 1983 con la corsa agli armamenti e la “periferizzazione” del conflitto in aree lontane dalla “proiezione” delle Superpotenze. Il 1983 è una “data simbolo” perché in quell’anno Reagan varò la Space Defence Iniziative (scudo spaziale) che rese obsoleti i sistemi offensivi del nemico sovietico. L’URSS di Gorbaciov provò a reagire con la glasnost e la perestroika ma questi provvedimenti – anziché essere il trampolino di lancio per un nuovo programma militare – accelerarono il crollo del sistema imperiale socialista.

L’implosione dell’Unione Sovietica nel 1991 aprì una fase nuova nelle relazioni internazionali, quella “binaria”. Caratteristica di questa fase era il predominio delle organizzazioni internazionali sugli Stati nazionali. Protagonisti di peso in questo periodo furono l’ONU e l’Unione europea. Il britannico Robert Cooper teorizzò l’UE come un “sistema di ingerenza reciproca” composto da Stati “post-westfaliani”, dunque disposti a rinunciare alla propria sovranità cedendola alle organizzazioni sovranazionali. La “fine della storia” ed il predominio occidentale portarono all’elaborazione del concetto di “aggressione passiva”, per molto tempo adottato dall’Europa unita, portatore di una visione secondo cui i confini si difendevano ampliandoli (l’espansione ad est dell’UE è frutto di tale strategia).

La disintegrazione della Jugoslavia e le guerre balcaniche riportarono in auge i vecchi nazionalismi aggressivi ed il “sistema binario” accusò i primi colpi. Con gli attentati dell’11 settembre 2001 ed il rifiuto opposto alla NATO da Richard Armitage, per conto degli USA, di far scattare l’Articolo 5, si scrisse l’atto di morte per un sistema internazionale che non aveva mai rappresentato una reale alternativa. Si inaugurò così la fase “post-binaria” o della “globalizzazione selettiva”. Caratteristiche principali della politica internazionale post-binaria sono le alleanze militari “liquide” (le ormai famose coalizioni dei volenterosi), la preferenza per gli accordi bilaterali piuttosto che per quelli multilaterali e le guerre asimmetriche che hanno trasformato gli “Stati falliti” in minacce superiori alle Potenze militari classiche ribaltando i termini di paragone in voga durante lo scontro bipolare.

Nella fase della “globalizzazione selettiva” il blocco politico-militare-economico occidentale non è più l’unico attore di peso sulla scena. I Paesi emergenti, i BRICS, stanno cambiando le regole della politica internazionale. Nonostante la loro forza, i BRICS sono rimasti “consumatori” di sicurezza e non “fornitori”, compito ingrato a cui l’Occidente – nonostante le titubanze degli Stati Uniti e la poca incisività europea – resta delegato. Un dato però è innegabile: il mondo di oggi è molto meno euro-atlantico di qualche anno fa; questo perché gli USA, grazie alle scoperte dei giacimenti di gas nel loro territorio, non hanno più bisogno di proiettare la loro potenza all’estero per i propri bisogni di politica energetica. Viene perciò da chiedersi se, sul lungo periodo, Washington possa tendere ad un nuovo isolazionismo e quale possa essere il ruolo dell’Unione europea. Fino ad ora né la Francia né la Germania, pur avendone i mezzi hanno voluto accettare il ruolo di “guide” dell’Europa, ancora legata ad un sistema rigidamente “economico” e troppo poco “politico”.

L’Italia agisce in questo sistema tentando di conciliare le sue due “vocazioni” mediterranea ed europea. Durante la Guerra fredda ci si illuse che l”Italia fosse fortemente ancorata al sistema d’alleanze occidentale, eppure la sua posizione geografica gli imponeva due sfere di proiezione. Il “peso determinante” del nostro Paese poteva valere tanto nei rapporti con il sud-ovest, quanto in quelli con l’Oriente. Ludovico Incisa di Camerana aveva individuato tre “cerchi” entro cui la Politica estera italiana era stata sviluppata nel periodo della Guerra fredda: la sicurezza militare (cerchio transatlantico); lo sviluppo economico (cerchio europeo); la politica “creativa” (cerchio mediterraneo-levantino). Una Politica estera di così vasta portata non era adatta ad un Paese che era stato incapace, tranne che nel ventennio fascista, di portare avanti progetti coerenti d’egemonia.

Basti pensare al sostegno dato dall’Italia ad alcune iniziative sovietiche nel Terzo mondo o al fatto che quello di Roma fu il primo governo occidentale a riconoscere la Repubblica popolare cinese. Senza parlare di più ampie “libertà” che la nostra diplomazia si ritagliò nei rapporti con i movimenti nazionalistici del Medio Oriente, visti invece come avversari dal resto dell’Occidente. Il fatto di essere stati molto più “aperti” al dialogo con gli avversari, poteva garantire agli italiani una sicura riscossione dei dividendi della pace una volta crollato il blocco sovietico, eppure così non fu.

Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 l’Italia – sfruttando un “lampo di genio” di Gianni De Michelis, all’epoca inquilino della Farnesina – rispolverò la vecchia politica fascista di penetrazione nell’Europa centro-orientale al fine di dar vita ad un “hinterland” italiano che avesse l’Ungheria come fulcro. Con l’URSS al collasso e la sicura apertura di nuovi mercati ad est, a Roma si pensò a come tutelare il “Made in Italy” dal pronosticato assalto internazionale e la linea di De Michelis fu presa in considerazione seriamente. Se tale progetto non si realizzò non fu per mancanza di iniziativa della nostra diplomazia ma per alcuni difetti strutturali del Paese, su tutti il mastodontico debito pubblico ed una mentalità d’impresa poco propensa all’internazionalizzazione.

Proprio la grande presenza di PMI nel nostro Paese, da sempre considerate un punto di forza, furono il “cappio al collo” che impedirono all’Italia di ritagliarsi uno spazio molto più ampio nei periodi successivi alla fine della Guerra fredda. Una grande impresa è in grado di internazionalizzare la sua produzione rivolgendosi anche ad acquirenti stranieri ed una caratteristica dell’economia italiana è la presenza di “medie imprese internazionali” capaci di “fare mercato” nel mondo ma generalmente attive solo ed esclusivamente in settori di monomercato.

Negli ultimi anni, dopo il fallimento sostanziale del WTO, il governo italiano ha tentato di proteggere le proprie imprese ed il “Made in Italy” firmando accordi bilaterali anti-contraffazione (il più importante dei quali con il Canada) e difendendo a spada tratta il meccanismo dell’anti-dumping in seno alle istituzioni europee. Nonostante le previsioni negative sul futuro del “Made in Italy” di fine XX Secolo, le nostre eccellenze nazionali – condensate nelle “5 A”: Abbigliamento, Arte, Agroalimentare, Automazione, Arredamento – sono sempre più richieste nel mondo ma, come già detto, subiscono giornalmente l’attacco dei Paesi emergenti e dei contraffattori. L’esportazione è parte integrante della diplomazia economica di una Media Potenza, eppure l’Italia, al contrario della Germania, non è mai riuscita a rafforzare la sua presenza economica nel mondo.

Il “presentismo” politico-diplomatico nei principali forum mondiali (senza mai avere un ruolo determinante in nessuno di essi) ha impedito a Roma di attuare serie politiche d’investimento a lungo termine nelle aree di principale interesse nazionale. Nonostante l’aumentata presenza del “Made in Italy” nel mondo l’Italia non può contare solo sui suoi mercati di “pertinenza”, perché sono comunque di nicchia. A questo punto la politica energetica – specie per un Paese privo di materie prime come il nostro – assume un ruolo fondamentale. La storica partnership con la Russia e quella coltivata da pochi anni con l’Algeria possono essere vettori di potenza e prestigio per la nostra Nazione se solo a Roma si attuassero progetti per trasformare l’Italia nell’hub energetico d’Europa. Il fallimento di “South Stream” ha inferto una dolorosa ferita a quanti nel nostro Paese puntano sulla geopolitica energetica per rafforzarne il ruolo. Eppure non tutto è perduto; la posizione di “terminale” dell’Italia per i traffici commerciali del “Cindoterraneo” (Cina – Oceano indiano – Mediterraneo) è la principale risorsa per la nostra diplomazia.

Per concludere, si può azzardare che nel mondo in continua trasformazione della “globalizzazione selettiva” e delle alleanze liquide, la Politica estera italiana abbia – pur tra mille difficoltà – un punto fermo: il suo “peso determinante” geostrategico. Né i mercati né la diplomazia possono fare a meno della Penisola italiana e questo fattore geografico, individuato da Dino Grandi e dai diplomatici “ventottisti” nel decennio 1928-1938, più volte ha permesso al nostro Paese di avere un ruolo importante nel mondo. Non lasciamoci sfuggire l’occasione questa volta perché, visti gli equilibri internazionali, perdere questo treno potrebbe costarci caro.