Ungheria– di Alessio Marsili – “Volete voi che l’Unione Europea imponga l’insediamento forzato di cittadini non ungheresi sul territorio nazionale senza il consenso del Parlamento?”. Il quesito del referendum di domenica 2 Ottobre, al quale oltre 8 milioni di cittadini ungheresi saranno chiamati a rispondere, non lascia spazio ad alcun dubbio; messa in questi termini, non v’è da stupirsi che l’esito appaia scontato. La consultazione referendaria, approvata il 10 maggio scorso su proposta del governo di destra presieduto da Viktor Orbán, sarà valida se si raggiungerà il quorum di circa 4 milioni di ungheresi, il 50% dell’elettorato magiaro. E proprio l’elevata astensione, auspicio dei partiti di sinistra all’opposizione, costituisce una pericolosa incognita – che potrebbe potenzialmente insinuare taluni grattacapi all’Esecutivo, pur senza mettere a repentaglio il successo politico della campagna. Su Budapest puntati i riflettori di tutte le Cancellerie europee.

Ad un anno dallo scoppio della grave crisi di migranti del 2015, che vide l’arrivo di oltre 1 milioni di persone in Europa (portando alla costruzione da parte di Budapest della barriera di filo spinato al confine serba, poi prolungata a quella croata) non va dimenticato che Orbán si dimostrò fin da subito strenuo oppositore della politica comunitaria di ripartizione proporzionale in tutti gli stati d’Europa dei migranti – circa 1294 spettanti a Budapest; un referendum, dunque, secondo il leader magiaro, sull’indipendenza del Paese, sul diritto esclusivo degli ungheresi di scegliere con chi convivere, sull’ingerenza negli affari interni degli euro-burocrati di Bruxelles. Che l’Ungheria, e consequenzialmente il suo Primo Ministro Viktor Orbán – capo del partito Fidesz – dunque siano i maggiori antagonisti interni con cui l’Unione Europea ha a che fare, è cosa ben nota. Eppure Orbán non è aprioristicamente contro l’idea di Europa: può esser definito europeo “inquieto”, ma non può assolutamente esser tacciato di anti-europeismo. Un’Europa diversa, dalle forti identità nazionali e dall’omogeneità etnica, capace di riscoprire le incontrovertibili radici cristiane. Non è, chi più chi meno, quello che vorremmo tutti? Non a caso, proprio il Primo Ministro magiaro è a favore del rilancio del progetto di un esercito europeo.

Il piano del premier nazional-conservatore è, inevitabilmente, di ampia portata. Se, infatti, la validità giuridica del referendum rimane oscura (dato che si voterà sugli effetti dei trattati internazionali), la prevedibile vittoria del “no” porterebbe a plurime conseguenze: internamente, rinsalderebbe la legittimità di Orbán in vista delle elezioni politiche del 2018, evidenziando la frammentarietà dell’opposizione e distraendo il paese dalle gravi problematiche economiche intestine. Internazionalmente, rafforzerebbe l’asse del “Gruppo di Visegrad” – organo di cooperazione regionale tra Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia e Polonia -, configurante sempre più un’alleanza del fronte di fermezza dell’Europa Orientale contro l’Unione europea e le politiche nei riguardi dei profughi; e, soprattutto, servirebbe per porsi alla guida di quel movimento euroscettico che sembra aver individuato nello strumento referendario lo strumento ideale per apportare colpi – talvolta letali – a Bruxelles.

Tempi duri attendono il Vecchio Continente. Il referendum ungherese, primo appuntamento elettorale, potrebbe causare un grave strappo che alimenti l’inarrestabile ostilità nei confronti dell’euro-burocrazia. Dopo di che, sarà il turno delle presidenziali austriache – già viziate -, del referendum italiano e presumibilmente di ulteriori votazioni in Spagna; ed il 2017 non sarà da meno, con gli appuntamenti alle urne per Olanda, Francia – il Front National sembra poter arrivare al ballottaggio – e Germania, dove Alternative für Deutschland vanta il 15% sei suffragi. I movimenti populisti dunque, oltre ad avanzare, sembrano dettare anche l’agenda europea. L’UE sarà in grado di reagire o attenderà passivamente e preoccupata che i cittadini dicano la loro?

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