centro-destra -A cura di Francesco Severa – Vox populi, vox Dei. Il popolo ha sempre ragione. È assunto fondante della democrazia riconoscere un’intuitiva saggezza in qualsiasi decisione venga presa dalla maggioranza degli uomini comuni. Un assunto questo che non può non avere il carattere della sacralità. Sta di fatto però che, avendo io fatto parte questa volta, orgogliosamente, della minoranza soccombente, non posso dirmi né soddisfatto né rassicurato dal risultato. Questo referendum rappresenta prima di tutto un’ulteriore occasione persa. La Costituzione del 1948 tiene le forme istituzionali italiane ancorate ad un’altra epoca, nobile certamente, ma che oggi è stata soppiantata dagli sviluppi della storia. Non fraintendetemi. Il progresso per amore del progresso è qualcosa di diabolico. Se vogliamo però conservare quel solido complesso di valori che anima il nostro vivere civile non possiamo non dotarci di strumenti, ideali ed istituzionali, nuovi ed idonei a contrastare le insicurezze di questa modernità. Il 4 dicembre si presentava al paese l’opportunità di farlo. Attraverso la proposta di riforma costituzionale avallata da un Governo presuntuoso ed arrogante? Sì. Tramite una riforma non perfetta? Certamente. Eppure era una riforma minima, condivisibile e soprattutto non rinviabile. Ma non sono stati i contenuti il centro della discussione politica di questi mesi. Si è preferito trasformare questa consultazione da un’occasione per cambiare l’Italia in un’occasione per coltivare le mire di potere personale di qualche capo-partito o aspirante tale. Una trasformazione avallata prima di tutto dallo stesso Renzi, che ha concepito questa consultazione come un’ordalica valutazione su se stesso. Non sono stati da meno però i vari capetti del centro-destra di questo paese, in corsa per attestarsi la tessera di novelli Trump – esterofilia spicciola, la definirei.

Sarebbe giusto interrogarsi allora, all’indomani del voto, sulle conseguenze di questa incontestabile vittoria del No. Ci ritroviamo già pronti, dopo mesi di campagna elettorale, a sostenerne un’altra, nella quale, vista l’attuale legge elettorale, il mondo del centro-destra nelle sue varie composizioni non solo non potrà che giocare un ruolo subalterno a Renzi e Grillo, ma nemmeno potrà aspirare lontanamente al governo del paese. Questo referendum è stato certamente l’espressione di un grande e diffuso malcontento in un’Italia immobile e senza più il coraggio di sperare. Un malcontento però che non è classificabile politicamente, né politicamente controllabile. Lo si può provare a cavalcare e indirizzare contro qualcuno, ma con quali risultati? Se li guardiamo da destra, quei diciannove milioni di voti per il No sono inservibili, per il semplice motivo che nessuno, da Salvini alla Meloni, passando per Toti e Brunetta, ha tentato di costruire dietro quel malcontento un’alternativa politica e partitica credibile. I partiti di centro-destra oggi scontano la scelta di non aver condiviso dall’inizio questo processo costituzionale riformatore, arrivando a doversi schierare con forza contro una revisione che ricalcava ciò che per venti anni avevano predicato. Questo non è stato solo un tradimento della funzione storica, culturale e politica del centro-destra italiano, ma ha anche definitivamente spostato l’asse di esso in direzione di un sovranismo in salsa italica, anzi padana, che ha regalato a Renzi una vasta area di elettori che sempre si erano riconosciuti in questa nostra area politica. Tutto consapevolmente. Tutto nel tentativo, non troppo velato, di trasferire in Italia il nuovo modello bipolare che va oggi affermandosi nel mondo: quello che divide le forze politiche non sull’asse ideologico destra-sinistra, ma su quello classista di globalismo-sovranismo. Un modello che definirei certamente semplicistico, perché tendente a ricondurre le scelte degli elettori a semplici valutazioni di tipo economico. In Italia, oggi, questi due modelli si stanno incrociando, senza però trovare un equilibrio. L’errore sta nel pensare che se il centro-destra diviene sovranista automaticamente tutto quel blocco sociale, culturale e politico che lo ha fatto governare negli scorsi venti anni si possa trasferire in quella parte della barricata. La divisione sarebbe inevitabile e comporterebbe il trasferimento di una consistente parte dell’elettorato più moderato in campo renziano-globalista. Inoltre un eventuale partito salviniano-sovranista avrebbe il forte limite di tentare di riempire un’offerta politica che ha già un riferimento: il Movimento 5 Stelle. Si voterebbe dunque ad un ruolo marginale e ininfluente per il governo del paese.

La verità è che oggi l’unica possibilità per il centro-destra di non rimanere schiacciato dal bipolarismo Renzi-Grillo non è certo quella di inseguire una delle due parti. Esso ha invece la necessità di rappresentare un polo sintetico tra i due estremi, capace di intercettare sia le spinte di questa storica volontà di riappropriarsi della propria sovranità, intesa come potere di indirizzare politicamente le scelte della propria comunità, sia le spinte di apertura verso nuovi modelli di crescita più sostenibili. Una sintesi che chiaramente non si potrà definire in un unico movimento, ma in una pluralità di espressioni partitiche unite sotto un unico cartello elettorale. Tutti però uniti da una medesima visione ideale e valoriale. Questa strategia politica forse potrà permettere ad un popolo – prima ancora che ad una classe politica – il quale rappresenta l’anima più sfacciatamente italiana di questa nostra nazione, di sopravvivere e giocare in futuro un ruolo ancora centrale in un paese che non può essere lasciato nelle mani del progressismo renziano, né del nanismo politico dei grillini. Sarà troppo tardi?