– di Paolo Martocchia – Il 23 ottobre di centouno anni fa Filippo Corridoni, giovane sindacalista e agitatore politico, cadeva eroicamente all’età di 28 anni, dopo pochi mesi dall’entrata in guerra dell’Italia, nella cosiddetta «Trincea delle Frasche», nei pressi di San Martino del Carso. Il giovane soldato guidava un drappello di commilitoni cantando l’inno di Oberdan, avvicinandosi alle postazioni austriache: la sua «leggenda» fiorì immediatamente. La città natale, Pausula, nelle Marche, prese il nome di Corridonia; un monumento venne eretto a Parma, teatro di alcune delle sue più significative «gesta» rivoluzionarie; in tutti i borghi e le città italiane gli venne dedicata una strada.
Corridoni fu anche giornalista e scrittore e “Sindacalismo e Repubblica” è il volume dove il pensiero corridoniano offre una chiave di lettura importante per capire la sua idea di Repubblica antipartitica governata da una democrazia diretta. Il testo, una vera e propria riscoperta editoriale, è stato ristampato, dalla neonata Idrovolante edizioni (a cura di Paolo Martocchia, pp. 220, € 14) con lo stesso titolo e arricchito dagli atti del convegno tenutosi a Parma il 12 settembre scorso per ricordare la figura di Corridoni che permettono al lettore, dopo la prefazione di Enrico Nistri e l’introduzione agli atti di Paolo Martocchia, di approfondire il Corridoni sindacalista rivoluzionario (Giovanni Facchini), interventista (Corrado Camizzi) e volontario (Massimo Zannoni).
L’opera di questa figura non può non stupire il lettore contemporaneo. Chi era Corridoni? «L’espressione più compiuta» del sindacalismo rivoluzionario – scrive Facchini – un movimento “eretico” che si basava sul «teorema» dell’indipendenza sindacale nei confronti sia dei partiti politici che dello stato, con l’obiettivo di costituire una società organizzata per mezzo di sindacati di lavoro e di settore attraverso lo strumento dello sciopero generale. In Italia, furono (anche) Arturo Labriola e Enrico Leone a sviluppare quella che era stata l’elaborazione originaria di questo filone sindacale dovuta – in maggior misura – al filosofo francese Georges Sorel.
Per Corridoni, la rivoluzione era «un fatto di volontà, e la lotta di classe doveva riflettere prima di tutto un cambiamento interiore, un salto di qualità e di mentalità delle masse proletarie: attraverso la nuova morale eroica dei produttori sarebbe sorta la nuova aristocrazia sociale». Lo strumento dello sciopero, dunque, doveva essere «politico, non economico», sottolinea Facchini, che mette poi in risalto l’antimilitarismo, le condanne, gli arresti e l’esilio a cui fu sottoposto il Tribuno marchigiano durante gli anni della gioventù. Il legame con il partito socialista viene definitivamente reciso dopo il congresso di Ferrara (1907): l’azione politica del sindacalismo rivoluzionario, che si sviluppa quale corrente di sinistra all’interno del partito socialista, trova valenti adesioni in molte zone d’Italia.
Sono molte le vicende sindacali che offrono più di una chiave di lettura dei tempi. Tuttavia, è nel 1911 che Corridoni, dopo essere rientrato a Milano, si afferma definitivamente con il suo talento e la sua capacità, specie come organizzatore capace e preparato e non solo come agitatore: la storia dello sciopero dei gasisti milanesi ne offre ampia testimonianza. Una chiave di lettura importante è data dal punto di vista interno al sindacato, con la svolta avvenuta nella tre giorni di Modena (23-25 novembre 1912), quando si arrivò alla scissione della CGdL dalla corrente sindacalista e la formazione dell’Unione Sindacale Italiana (Usi), con Alceste De Ambris segretario e Parma sede centrale. Corridoni divenne referente della sede dell’Unione Sindacale di Milano, alle prese con imponenti scioperi nel settore metallurgico: qui Corridoni trovò dunque terreno fertile e «tutta la città – sottolinea ancora Facchini – sembrava veramente ai piedi di questo ragazzo appena 25enne, che viveva in maniera poverissima, con cui erano costretti a trattare i più importanti industriali delle grandi aziende e le più alte autorità».

Le riflessioni di Corridoni sul vissuto dell’epoca, sui risultati raggiunti dal sindacato e sugli sviluppi futuri dello stesso movimento si fecero più acuti all’indomani del fallimento della settimana rossa, lo sciopero generale programmato da tempo dal quale si ritirò la CgdL.
Facendo seguito ad un «cammino ideale» e ad un filo temporale ben definito, lo scritto di Camizzi è vitale per comprendere come si è sviluppato il pensiero del Tribuno marchigiano in quel preciso istante storico-politico e il «definitivo passaggio» di Corridoni dall’antimilitarismo all’interventismo, con il supporto della nozione mazziniana di «Nazione Armata» che fa breccia nel suo ideale di Patria, ma anche di Libertà.
Già, libertà: una parola che Corridoni, nella sua acutezza, integra anche nel concetto di guerra rivoluzionaria, per significare una «rivolta istintiva, spontanea contro l’oppressione e l’ingiustizia a danno dei popoli deboli e inermi», spostando dunque a «lotta di Nazioni» il concetto originale di «lotta di classe». Una posizione chiara e precisa, che Corridoni aveva sviluppato sin dagli inizi del 1914: «Il proletariato non è classe finché non ha una coscienza di classe – scrisse sull’Avanguardia – e questa non si acquista finché l’organizzazione non si allargherà ad altre battaglie oltre quelle del salario e dell’orario. Si mangia per vivere e non si vive per mangiare. E noi vogliamo, dall’alto di questa libera tribuna, illuminare le nuove vie della marcia proletaria». E sono le locuzioni successive che Camizzi cita – “Sindacalismo eroico”, “Cittadino soldato” e “Nazione proletaria” – a rendere Corridoni – in misura maggiore – un personaggio traversale alle tradizionali linee ideologiche e vieppiù meritevoli di approfondimenti storici, parimenti essenziali ed afferenti alla «riscoperta» della Patria, che in Corridoni “non si nega, ma si conquista”.
La relazione del Prof. Massimo Zannoni verte sulla figura di Corridoni Volontario. Quando fu ritenuto “Non idoneo” alla guerra, Corridoni non si perse d’animo (non era nel suo Dna) e decise di rivolgersi direttamente a Spingardi, il generale di Corpo d’Armata il cui intervento si rivelò decisivo per l’ingresso di Corridoni nel Regio Esercito.
Il Prof. Zannoni esplicita con fonti inoppugnabili la situazione «non sempre entusiasta» cui furono accolti i volontari, in taluni casi anche con «ostilità»: i soldati attribuivano la partenza per il fronte anche alle reiterate insistenze dei volontari. Si arrivò al 25 luglio 1915, quando Corridoni partì per il fronte con i complementi del 32° Reggimento di Fanteria. In realtà, dopo poco tempo «il desiderato invio al fronte non avveniva e i volontari si lamentavano» scrive Zannoni: ciò indusse Corridoni prima a parlarne con il colonnello che era al comando del reggimento e poi a lasciare motu proprio il reparto insieme ad altri due volontari con l’obiettivo precipuo di recarsi direttamente al fronte. Questo è un passaggio cruciale per capire come fossero visti e trattati i volontari: quando i tre “colpevoli” fecero ritorno al reparto, furono imputati di “diserzione” di fronte al nemico. Fu il generale Ciancio, alcuni giorni dopo, a scagionarli dall’accusa, abbracciando e baciando i tre volontari, di lì a pochi giorni trasferiti al 142° reggimento fanteria, la truppa dove avvenne il sospirato impiego di Corridoni in prima linea.
Il 18 ottobre quando l’esercito italiano scatenò la grande offensiva ricordata come la “terza battaglia dell’Isonzo”, Corridoni non stava bene: la febbre, sovente alta, indusse più volte l’ufficiale medico a trattenerlo dai suoi propositi. Non ci fu verso di fermarlo: nella notte fra il 22 e il 23 ottobre, Corridoni e gli altri uomini del suo reparto si attestarono nella “Trincea delle Frasche” per lanciarsi contro la posizione austro-ungarica: qui Corridoni trovò la morte.
La ricerca storica e le fonti che i tre autori citano offrono valore aggiunto attorno alla figura di Filippo Corridoni, la cui lezione di vita è sacrosanto ricordare nel centenario della morte. Il coraggio e la determinazione che Corridoni ha profuso in ogni sua azione ci sembrano tracciare la strada maestra per una complessa ed approfondita analisi storica, aiutandoci ad attualizzare una visione d’insieme di com’era l’Italia agli inizi del Novecento, nelle sue figure e nel suo sistema politico e sociale. Un libro da leggere per ricordare un grande esempio di sindacalismo e patriottismo.