– di Filippo Del Monte – Pochi giorni fa è stato annunciato dal governo italiano che il contingente militare schierato in Iraq raggiungerà entro pochi mesi il migliaio di soldati. L’aumento degli effettivi è dovuto alla necessità di presidiare la diga “Saddam Hussein” di Mosul danneggiata durante il conflitto contro lo Stato Islamico. Per ora la diga è presidiata dai peshmerga curdi e dalle forze speciali statunitensi che hanno sfondato il fronte durante l’ultima offensiva contro lo Stato islamico. Le milizie del Califfato sono in fase di riorganizzazione a circa 15 Km dalla diga. L’Italia invierà i suoi soldati in quella regione perché l’appalto per i lavori di manutenzione alla diga è stato vinto dall’azienda italiana Trevi. Detta così sembrerebbe un’operazione di routine. Peccato che non lo sia e vediamo perché analizzando il teatro delle operazioni, la consistenza delle forze da inviare e la strategia politica del nostro Paese in Iraq.

Mosul è la capitale del Governatorato di Ninive ed è la capitale “riconosciuta” dello Stato Islamico in Iraq. Questa città è lo snodo stradale che collega l’Iraq con la Turchia e la Siria ed il suo possesso è fondamentale per i generali del Califfato in quanto rappresenta tanto un punto di partenza per il trasferimento di miliziani in Siria, quanto una valida “porta aperta” in caso di ritirata strategica dal territorio siriano. Non è un caso che l’ultima controffensiva lanciata da curdi ed iracheni sul fronte nord si sia infranta proprio contro Mosul. La diga “Saddam” rappresenta uno dei siti più importanti della regione, a 15 chilometri dalla città, ed i peshmerga sono riusciti a strapparla agli islamisti solo dopo un furioso combattimento. Negli anni precedenti la diga era già danneggiata a causa della mancata manutenzione, gli ultimi combattimenti hanno causato danni tali da farne temere il crollo e la conseguente inondazione delle regioni di Ninive, Dahuk e Arbil. La linea di fronte si sposta continuamente a causa delle rapidissime offensive condotte da entrambi gli schieramenti e questo ha spinto molti strateghi a ritenere l’area di Mosul come la più pericolosa del conflitto iracheno.

A protezione della diga l’Italia dovrebbe impiegare un battaglione di paracadutisti della Folgore – prelevato da quella che doveva essere la “riserva strategica” per un eventuale intervento in Libia – accompagnato da una compagnia di genieri. Le forze italiane sarebbero completamente motorizzate e disporrebbero anche di mortai pesanti. Decisamente troppo per una semplice operazione di pattugliamento ma troppo poco per combattere realmente lo Stato islamico. Se le milizie di al-Baghdadi lanciassero un’offensiva sul fronte settentrionale probabilmente gli italiani alla diga di Mosul sarebbero in grado di resistere ma si troverebbero accerchiati in caso il sistema difensivo curdo-iracheno fosse superato di slancio. Il ministro della Difesa Roberta Pinotti ha negato eventuali coinvolgimenti dei militari italiani in combattimento ma schierare i paracadutisti alla diga di Mosul ci esporrebbe sulla linea di fuoco come già lo sono i soldati statunitensi. Dunque in Iraq ci troviamo nella spiacevole situazione di avere bombardieri che non bombardano e soldati che non sparano, l’unico problema è che non saremo nelle retrovie ma in prima linea; a quel punto da Roma non potranno continuare a mantenere tale atteggiamento ambiguo senza esporre a rischi elevatissimi i nostri militari.

Il rafforzamento del dispositivo militare italiano in Iraq è inoltre funzionale alle richieste fatte da Washington ai propri alleati nei giorni scorsi. Sul fronte iracheno il peso della guerra ricade quasi interamente sull’aviazione statunitense mentre gli altri Paesi della Coalizione si limita a blande operazioni secondarie. La Casa Bianca è stata costretta a richiamare all’ordine i suoi alleati “principali”, cioè gli occidentali, chiedendo un impegno maggiore in Iraq. Consapevoli del fatto che sull’Arabia Saudita in questo momento non si può contare – la politica autonoma di re Salman ha generato non poche apprensioni al Pentagono – i generali americani hanno preferito puntare sugli europei. Come è noto, a Roma sono divisi sulla linea da seguire. L’Italia ha interessi in Medio Oriente ma ne ha molti di più nel Nord Africa, dunque inviare soldati in Iraq sarebbe uno spreco di risorse che potrebbero essere impiegate per eventuali missioni in Libia. Questo è il ragionamento che, tendenzialmente, è giusto in linea teorica ma poi, con le richieste americane sul tavolo, la linea di quanti vorrebbero un maggiore impegno nel Levante – che poi sono gli stessi che credono nella formazione di un governo di unità nazionale in Libia – si rafforza.

L’accordo firmato in Marocco per la nascita (entro un mese) di un governo d’unità nazionale libico potrebbe spingere il governo Renzi a “liberarsi” della rappresentata dalla nostra ex colonia e concentrarsi sulla guerra in Iraq. Secondo la diplomazia italiana l’accordo marocchino è frutto dell’impegno di Gentiloni alla Conferenza di Roma; questo però non garantisce la riuscita dell’intera operazione. Innanzitutto perché già in precedenza erano stati firmati accordi che poi sono naufragati per l’opposizione della miriade di milizie impegnate nella guerra civile, in secondo luogo perché proprio l’accordo marocchino apre alla possibilità di intervenire militarmente in Libia sotto egida dell’ONU. Questa “pace in provetta” in Libia ci spinge verso Mosul con una velocità che rischia di farci schiantare con la dura realtà della guerra.

Con l’aumento degli effettivi nell’Operazione Prima Phartica in Iraq l’Italia rischia di fare ancora una volta il passo più lungo della gamba. Il contributo italiano alla Coalizione anti-ISIS poteva essere dato in modo migliore se si fosse deciso di utilizzare gli aerei per bombardare le postazioni del Califfato e non per semplici voli di ricognizione. Si vuole fare la guerra senza sparare un colpo ma nel caso in cui i paracadutisti fossero accerchiati dovremmo intervenire in forze per aprire un varco nella sacca. Sarebbe compito delle opposizioni, del centrodestra in particolare, al momento dello stanziamento dei fondi per tale missione far notare che probabilmente si stanno inviando i nostri militari a correre rischi inutili ma soprattutto che il governo ha dimostrato ancora una volta tutta la sua incapacità in politica estera.