A cura di Giovanni Russo – “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”. Ecco, ogni qual volta i tuttologi della rete: fenomenologia del commentatore web, Chicco Mentana li definirebbe “webeti”, si scatenano, a me viene in mente questo pensiero di Umberto Eco. Ieri allenatori, domani esperti di terrorismo, oggi esperti di diritto. Facciamo un po’ di chiarezza. Se martedì mattina qualche giornale avesse titolato “Hanno liberato Riina” è opportuno precisare che la cattiva informazione avrebbe colpito ancora. Lunedì è stata resa pubblica una sentenza della prima sezione penale della Cassazione sulle condizioni di detenzione del “capo dei capi”. La trafila è questa: Riina, che ha 86 anni, gli ultimi 24 dei quali trascorsi in carcere, sta male e il suo avvocato ha presentato un’istanza al Tribunale di sorveglianza di Bologna in cui si chiede la sospensione della pena o almeno i domiciliari. I giudici bolognesi hanno risposto di no, motivando con la intatta pericolosità del personaggio. La Cassazione ha annullato la decisione ma – ecco il punto – non ha dato un’indicazione netta, non ha prescritto di sospendere la pena, dice piuttosto al Tribunale che nell’assumere la propria decisione ha sbagliato a tenere conto solo del passato, del reato, e non anche della condizione oggettiva presente che si è venuta a determinare. La pericolosità da sola non basta come argomento: è come se i giudici di sorveglianza avessero deciso solo sul Riina criminale e non sulla persona malata. Approccio che a mio modesto avviso, avrebbe reso di fatto inutilizzabili tutte le argomentazioni che il Tribunale avesse poi richiamato nella propria sentenza, ed infatti, la Cassazione scrive che deve esistere per tutti, anche per i peggiori dunque, il “diritto a una morte dignitosa”, ma non si esclude che possa avvenire in carcere.

Questa è la verità dei fatti! Certo, per l’opinione pubblica è stato fin troppo facile ergersi a giudice, magari mossi da un fervore giustizialista che da quel 1992-1933 in poi, ha caratterizzato la storia di questo Paese, salvo poi riscoprirsi puntualmente garantisti in casa propria. Indignarsi, magari senza alcuna considerazione per l’articolo 27 della Costituzione Repubblicana che vieta l’esecuzione di pene contrarie al senso di umanità e per l’articolo 146 del Codice Penale che impone la sospensione della pena carceraria quando le condizioni di salute del detenuto risultano incompatibili con lo stato di carcerazione perché si trova in una fase della malattia così avanzata da non rispondere più ai trattamenti disponibili e alle terapie curative. Troppi i lutti – hanno detto – gli strazi e i dolori di cui è responsabile il boss di “Cosa Nostra”: da un bambino di soli 9 anni sciolto nell’acido, passando dal Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa nel 1982 fino ai Magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nel 1992. Troppo facile poi il paradosso con Dj Fabo, al quale essendogli stato negato il “diritto a morire”, non previsto dal nostro ordinamento, è dovuto andare in Svizzera.

Capisco non solo il dolore e le ferite riaperte dei familiari delle vittime di stragi e delitti di Mafia, ma anche la rabbia e lo sconforto di tante associazioni come Libera, guidata da Don Ciotti, che fanno della lotta alle organizzazioni criminali la propria ragione sociale. Ma a costoro e ai tutti i facili indignati, è giusto ricordare che tutte le vittime di Mafia che puntualmente commemoriamo, in modo particolare gli uomini legati alla Magistratura ed alle Forze dell’Ordine, sono morti proprio per attuare uno Stato di Diritto, volendoci insegnare che noi siamo diversi da loro, e nel quale la giustizia è amministrata da giudici indipendenti, terzi ed imparziali, sull’esito delle cui decisioni non possono incidere alterazioni emotive individuali o collettive. Le norme suscettibili di applicazione alla carcerazione di Totò Riina rappresentano pacificamente tutele dei diritti fondamentali che in quanto tali si caratterizzano per l’inderogabilità assoluta. Si tratta di disposizioni la cui ingiustificata disapplicazione anche per un solo caso rimetterebbe in discussione la natura stessa dello Stato costituzionale, del principio di eguaglianza formale di cui all’articolo 3 della nostra Costituzione. Quindi, lo Stato italiano ha esercitato sul boss mafioso la propria giurisdizione secondo le norme e le regole vigenti nell’ordinamento giuridico e grazie a questa architettura di civiltà lo ha condannato all’ergastolo più volte, lo ha imprigionato e lo ha relegato al regime carcerario del cosiddetto 41 bis.

E a chi, per concludere, ha affermato che qualora Riina fosse scarcerato si darebbe un segnale di resa alla Mafia, mi piace rispondere con le parole di Cesare Beccaria: “Un individuo non può mai essere un mezzo, deve restare il fine. Se le decisioni su un determinato soggetto vengono assunte in funzione del messaggio che ne può derivare, allora quella persona è ridotta appunto a mezzo, e questo non è mai lecito”.