Ergogan– a cura di Luisa Iannelli – Era notte inoltrata quando da Washington, uno dei peggiori esperti di politica internazionale, Barack Obama, pronunciava il suo endorsement a favore del Sultano Recep Tayyip Erdoğan seguito a ruota dalla regina d’Europa, Angela Merkel e dal suo fido scudiero Matteo Renzi. Quest’ultimo, mentre ancora la situazione era calda, la gente era nelle strade e i militari alzavano bandiera bianca lasciando i loro carri armati si affrettava a dichiarare “In Turchia hanno vinto stabilità e democrazia”.

Ma è davvero così? La Turchia è davvero un paese democratico? La stabilità, che sembra diventata la parola d’ordine degli uomini del “Giglio magico”, a che prezzo viene mantenuta?

Mi è capitato di viaggiare in Turchia, un paese meraviglioso, giovane e dinamico, una terra che si è conquistata, in solo un secolo, un posto di rilievo tra le potenze occidentali. Sull’opera di Ataturk, il fondatore della moderna Turchia, si sono succeduti governi che, più o meno “democratici” (nell’accezione che noi diamo alla parola), hanno saputo coniugare la cultura ottomana, la tradizione bizantina e il modello politico occidentale. Riforme enormi, quelle volute da Ataturk che hanno portato la Turchia ad essere uno dei pochissimi Paesi di religione Islamica da avere la laicità come principio costituzionale, che gli ha consentito di adottare l’alfabeto latino, di affacciarsi tra i grandi 20 della terra e di essere la potenza militare più forte della NATO dopo quella statunitense. Eppure tutto questo, specie negli ultimi anni, è stato pagato a caro prezzo dalle genti turche, specie da quelle di tradizione kemalita che, lentamente ma inesorabilmente, hanno visto scemare l’opera possente di Ataturk a favore di un nuovo leader, questa volta filo islamico, già sindaco di Istanbul, che ha saputo sfruttare a suo favore le leve religiose per giungere all’instaurazione di un autoritarismo che sta sfociando in dittatura.

Non dovremmo avere paura a pronunciare quella parola, noi che siamo sempre pronti a ventilare il rischio di derive autoritarie, noi che agitiamo il vessillo delle libertà senza diritti e delle democrazie senza popolo, eppure non ho sentito una sola parola che condannasse quanto sta avvenendo in Turchia. Ma cosa dovevamo aspettarci da un capo di stato che reprime nel sangue manifestazioni di piazza (ve le ricordate piazza Taksim o Gezi Park?)  o che annulla elezione in teoria democratiche perché non ha raggiunto la maggioranza utile a riformare a suo piacimento la Costituzione? Le repressioni, seguite al golpe su cui le ombre sono infinitamente superiori alle luci, e sulle quali ancora non ascolto una ferma condanna dai nostri leader, non sono che la naturale conseguenza della dittatura di Erdogan. A questo punto è lecito domandarsi cosa ne sarà di quel Paese, importante crocevia per la nostra politica internazionale; Cosa ne sarà delle speranze dei giovani in uno stato libero e democratico? Prevarrà il cinismo internazionale verso un governo stabile o si darà spazio alla democrazia,, ammesso che la si conosca? L’idea, stando al silenzio di questi giorni, sembrerebbe quella di cercare di controllare il potere di Erdogan, considerato il male minore, ma nulla esclude la possibilità che l’indifferenza internazionale possa favorire lo scivolamento del paese nel caos di una guerra civile. Noi italiani staremo a guardare, come sempre, pronti a salire sul carro dei vincitori, ma spero di sbagliare.

Le foto dei militari Turchi nudi, sottomessi dopo il golpe (Vanity Fair)