napolitano pci– di Nicola Tancredi – Era il 9 maggio 1946 quando Vittorio Emanuele III abdicò. Oggi a distanza di quasi settant’anni, celebriamo un evento simile. Un anno fa infatti il dimissionario presidente Giorgio Napolitano, lasciava il Colle dopo nove anni condotti in maniera non del tutto conforme allo spirito costituzionale, a punto tale da fargli guadagnare il sopranome di Re Giorgio. Qui, su questo appellativo, gli amanti del sospetto potrebbero divertirsi nelle ricerche storiche che vedono il presidente uscente figlioccio del “re di maggio”, al secolo Umberto II di Savoia. Ma non mi voglio dilungare su questo argomento. Voglio più che altro attirare l’attenzione del lettore sulla condotta non del tutto imparziale che il predecessore di Mattarella ha avuto, durante il suo mandato e soprattutto sugli ultimi mesi dello stesso. Eletto nel 2006 da un Parlamento impegnato a ricontare le schede per verificare la sua stessa maggioranza numerica, fu rieletto nel 2013 da un Parlamento illegittimo, come si denota dalla sentenza della Cassazione n.1/2014 . Appena rieletto avevamo avuto qualche dubbio sulla effettiva costituzionalità del Napolitano bis. Ma siamo in Italia e ogni dubbio lecito viene sovvertito dai media di potere. Dopo aver smentito quel che dichiarò nei giorni precedenti alla corsa al Quirinale, accettò la rielezione al Colle sulla spinta eurocratica capitanata da Draghi e dei partiti, che terrorizzati dalle candidature di altri nomi, si vedevano negati la possibilità di un rimpasto e la riedizione delle “larghe intese-show”. Passato alla storia come il Capo di Stato d’emergenza e necessità si è reso protagonista per l’intero suo settennato e per i venti mesi che segnarono il secondo mandato al Colle, di errori, abusi di potere e dirottamenti dai limiti che la Costituzione fissa. Manca lo spazio per riassumerli tutti. Qui mi limito a puntare il dito sulla sola non-condotta a difesa della Costituzione. Da molti additato come “traditore” della succitata carta, da altrettanti invece accusato di essere l’artefice dell’entrata, negli ambienti istituzionali, delle élite finanziarie, costringendoci a vivere nell’illegalità del colpo di stato finanziario compiuto consegnando a Mario Monti le chiavi di Palazzo Chigi nel novembre 2011. Non è certo un errore se con senso critico ammettiamo che a cavallo dei due suoi mandati si sono perpetrati, previa sua benedizione, tre governi tecnici che hanno continuato sulla strada inizialmente delineata dallo stesso governo Monti. Una strada che segna, inevitabilmente, uno scontro ideologico-costituzionale nelle continue cessioni di sovranità.

Fu lo stesso Monti ad ammettere che l’Europa necessita di crisi per fare passi avanti. Ma quello che più ha colpito agli occhi dei molti è stato il cinismo con cui imperterrito ha manifestato in constante contrasto con la Costituzione, la necessità di cessioni di sovranità al fine ultimo di aderire ai parametri europei, che già di per sé presentano tratti incompatibili con la Costituzione stessa. Basti pensare alla modifica dell’art.81 Cost. avvenuta nel 2012 -governo Monti!- e che introduce l’obbligo del pareggio di bilancio. Principio questo in netto contrasto con i dettami e i valori costituzionali. Napolitano non è stato un buon presidente. Non ha rispettato la sostanza, l’anima, il compito che un Capo dello Stato deve avere difronte alla Nazione; cioè quello di servire il popolo, di rispettare la Costituzione, di difendere la sovranità e di rappresentare l’unità nazionale. Non ha preservato il paese da influenze sovranazionali. A momenti di retorica, quasi obbligata dal ruolo istituzionale, in cui manifestava il rispetto formale della Costituzione con costanti richiami sia ai valori nazionali che al senso dello Stato, alternava con tono deciso e sentenzioso, nel dialogo sul fronte dell’Unione europea, la necessità di sottoscrivere la nostra Repubblica in maniera attiva e concreta ai dettami dell’ establishment europeo. In tal senso indelebili restano le parole nel suo messaggio al convegno del Movimento federalista europeo del 5 aprile 2014, dove auspicava nuovi indispensabili sviluppi istituzionali e politici per far confluire il nostro paese, il nostro Stato nella federazione europea. Con quelle parole Napolitano tradiva il suo mandato e lo Stato sovrano che rappresentava. Parlare di tradimento del mandato non è sbagliato; se ripercorriamo la storia recente, ci possiamo accorgere come nei momenti critici delle crisi finanziarie e di sopravvivenza dell’euro, Napolitano abbia usato e sfruttato tutta la sua influenza istituzionale per dirigere il pensiero dell’opinione pubblica e delle forze politiche nell’unica direzione a lui conosciuta e voluta. Quella del sistema elitario europeo, che inevitabilmente appare agli occhi dello stesso, un referente più alto della nostra Costituzione. Talmente alto da avvallare, prima delle dimissioni, un governo, quello di Renzi, vicino ai dettami dei mandanti che, nella logica del vuoto istituzionale con il quale si è costruito l’immagine del salvatore della patria, protrae inesorabile nell’illegittimità della fiducia su cui si basa il suo governo, il progetto criminoso di “bombardare” l’ultima cosa bella che ci è rimasta. La Costituzione.