– di Filippo Del Monte – Le dimissioni di Matteo Renzi, a prescindere da come questa crisi di governo sarà risolta, impongono una riflessione sulla politica estera del premier uscente. Va specificato che il governo Renzi è stato il primo – dopo la caduta di Berlusconi nel 2011 – ad aver tentato di dare una propria fisionomia alla politica estera italiana, in altre parole, ad aver tentato nel bene e nel male di programmarne alcuni obiettivi di medio-lungo periodo. Probabilmente la volontà di Renzi e dei renziani di incidere profondamente sulla vita politica italiana ha influito anche sulla condotta della politica estera tanto del premier, quanto dei suoi due ministri degli Esteri Federica Mogherini e Paolo Gentiloni. Fin da subito si può affermare che questo governo non si è limitato alla gestione dell’ordinaria amministrazione in politica estera come al contrario avevano fatto Monti e dopo di lui Letta; questo perché l’esecutivo guidato da Matteo Renzi, sebbene figlio della strategia “tecnicista” di Giorgio Napolitano, è stato a tutti gli effetti un governo “politico” e non ha risentito né della tecnocrazia messianica montiana, né della timidezza tecnico-politica lettiana.

Un bilancio sulla politica estera del governo Renzi sarebbe difficile da sviluppare seguendo l’ordine cronologico degli avvenimenti; è preferibile invece affrontare l’impresa seguendo la distinzione dei “tre cerchi” della politica estera italiana teorizzati dall’ex diplomatico Ludovico Incisa di Camerana: atlantico/sicurezza, europeo/economico e creativo. Questo è il miglior metodo per affrontare tematiche singole e poi ricondurle tutte nel punto ove questi cerchi vanno ad incontrarsi. Vi sono ad esempio crisi internazionali – quella libica ad esempio – che vanno scorporate a più livelli e che possono entrare a far parte tanto del cerchio atlantico, quanto di quello creativo.

Alcune costanti hanno contribuito a tratteggiare un certo tipo di politica estera targata Matteo Renzi. Gli ottimi rapporti con gli Stati Uniti di Obama sono una di queste costanti. Raramente Roma ha mostrato velleità “autonomiste” rispetto alla linea seguita da Washington nei rapporti tra il campo occidentale ed altri Stati. L’appartenenza dell’Italia al circolo degli alleati più fidati – e questo non significa comunque più consultati ed ascoltati – degli USA non è mai stato messo in dubbio da Matteo Renzi.

L’accettazione supina di alcuni diktat atlantici è stata resa ben visibile da alcune dichiarazioni sia di Federica Mogherini che di Paolo Gentiloni sulla questione siriana. Vero che l’Italia non è direttamente impegnata sullo scacchiere siriano – un’assenza che pesa per una Media Potenza regionale – ma è anche vero che gli schieramenti granitici che si affrontano in Siria sono la cartina al tornasole per comprendere una certa “sottomissione” italiana alle direttive della Casa Bianca. La forte ostilità mostrata da Gentiloni nei confronti di Assad e di una sua eventuale permanenza al potere, e lo scetticismo della nostra diplomazia perfino per una soluzione negoziata con gli assadisti riconosciuti come interlocutori, non sono frutto di una strategia nazionale ma dell’accettazione passiva della linea scelta da Obama fin dal 2013. Perfino le iniziative legate alla “politica creativa” di questo governo sono state segnate da alcune scelte statunitensi che Roma si è limitata ad eseguire.

Sulla questione libica, specie negli ultimi mesi, la collaborazione bilaterale italo-statunitense si è notevolmente rafforzata. Se i rapporti tra Roma e Tripoli o tra Roma e Tobruk vanno però inseriti nel cerchio delle politiche creative, i rapporti con le Potenze occidentali riguardo il dossier libico rientrano di diritto nel cerchio atlantico. Anche questa volta l’Italia ha rafforzato la sua partnership con Washington mettendosi di traverso rispetto alla politica “autonomista” di Parigi e Londra, principali competitor occidentali di Roma in Libia.

Proprio la Libia è il primo scacchiere nel quale il nostro Paese ha tentato di riscuotere i dividendi della sua politica creativa. Se nel 2011 Silvio Berlusconi fu costretto ad avere un ruolo tendenzialmente passivo nella guerra contro Gheddafi, Mario Monti non riuscì a ristrutturare la presenza italiana nella Libia in trasizione. Con Matteo Renzi a Palazzo Chigi un tentativo di andare oltre i rapporti di tipo economico-commerciale con le autorità libiche c’è stato. Certo, se l’obiettivo era quello di recuperare le posizioni perse nel 2011 – e questa è una colpa tutta imputabile al centrodestra – non è stato raggiunto. La fluidità della situazione militare sul terreno ha influito non poco su alcune scelte “isteriche” della nostra diplomazia nella “Quarta Sponda”; sull’onda delle scelte ONU alcune prese di posizione italiane sono difficilmente comprensibili. I margini di manovra italiani si sono ampliati quando le Nazioni Unite hanno scelto di appoggiare Tripoli contro Tobruk ed è stato il governo Renzi a farsi “garante” della stabilità politica in Tripolitania sostenendo a spada tratta al-Serraj. Le attuali difficoltà di al-Serraj sono riconducibili al braccio di ferro tra le milizie di Misurata e Tripoli e l’uomo forte in Libia sembra essere ora il generale Haftar, padrone assoluto di Tobruk che spadroneggia con le sue truppe corazzate in Cirenaica. La sconfitta dell’ISIS a Sirte ha praticamente ricondotto la matassa del conflitto libico di nuovo ai due contendenti iniziali con le Potenze occidentali appollaiate come sciacalli nell’attesa di vedere chi resterà sul terreno. Senza dubbio una situazione spinosa quella libica che Matteo Renzi lascia in eredità ai suoi successori.

L’altro fronte importante della “politica creativa” renziana è stato quello dei rapporti bilaterali con la Russia. Alla nomina come rappresentante PESC di Federica Mogherini furono inizialmente ostili i Paesi del blocco polacco-baltico perché l’ex responsabile Esteri dei DS era considerata troppo “filo-russa”. L’essere filo-russa è una costante della diplomazia italiana, sempre molto attenta alle scelte ed alla condotta della “Terza Roma” ortodossa. Non stupisce quindi che anche Matteo Renzi abbia scelto di percorrere fin dall’inizio la strada della distensione con Mosca. Se l’annessione russa della Crimea e la guerra nel Donbass hanno scatenato il “conflitto delle sanzioni” tra UE e Russia, Roma è stata sempre capofila di quanti nel Vecchio Continente hanno cercato il dialogo con il Cremlino. In un primo tempo sembrava proprio che Matteo Renzi potesse essere pioniere di un nuovo “spirito di Pratica di Mare” e tanto il riconoscimento dei danni reciproci provocati dalle sanzioni, quanto le proposte italiane in sede comunitaria di porre fine alla stagione sanzionista, lasciarono intendere questo.

L’incontro bilaterale Renzi-Putin a San Pietroburgo è stato il coronamento di un buon lavoro diplomatico condotto dall’Italia non sempre in linea con le scelte di Bruxelles (Berlino e Parigi). Certo è che gran parte dei risultati ottenuti sono andati persi dopo l’annuncio italiano dello schieramento di 300 soldati (cifra simbolica ma politicamente rilevante) in Lettonia a partire dal 2018 nell’ambito del dispositivo di difesa flessibile progettato dalla NATO in funzione anti-russa nell’ultimo summit atlantico a Varsavia. Dunque attorno ai rapporti con la Russia ha ruotato il più importante successo della “politica creativa” renziana (il summit di San Pietroburgo figlio della distensione dei mesi precedenti) e la sua più grave mancanza e caduta di stile (il ritorno all’ovile atlantico con lo schieramento dei soldati in Lettonia accettato senza nemmeno una protesta ufficiosa).

I rapporti tra l’Italia e gli Stati UE sono l’ultimo tassello da analizzare così da poter in conclusione stilare un bilancio della politica estera del governo Renzi. Se si dovesse affibbiare un aggettivo al rapporto Italia-UE con Renzi questo non potrebbe essere che “contrastato”. Da “sorvegliato speciale” delle istituzioni comunitarie l’Italia ha provato con Renzi a giocare la propria partita politica anche in sede comunitaria svincolandosi dalla linea filo-tedesca che il governo Monti le aveva imposto pagando il duro prezzo dell’ austerity. Dopo il trionfo del PD nelle Elezioni Europee 2014 Matteo Renzi è riuscito a piazzare Mogherini alla PESC ed il socialista francese Moscovici agli Affari Economici instaurando un’apparente tandem con Hollande che poi si è rivelato essere un fuoco di paglia. Mentre la Mogherini è stata subito messa in condizione di “non nuocere” alla politica anti-russa di Berlino, Londra e Varsavia; Pierre Moscovici sembra essere uno dei personaggi più ostili alla politica economica di Roma. Un simbolo della politica renziana in Europa è stato il ben noto “giro di valzer” tra Francia e Germania – in fondo due facce della stessa medaglia – per tentare di ricavare più ampi vantaggi per Roma. Il gioco del “peso determinante” ha avuto successo nei momenti di frizione tra Parigi e Berlino, ma alla ricomposizione dell’asse franco-tedesco gli italiani più volte si sono ritrovati isolati. I cambiamenti, a volte repentini, di linea politica hanno fatto perdere a Renzi e all’Italia la grande occasione rappresentata dalla presidenza di turno del Consiglio UE nel 2014.

La “Brexit” poteva rappresentare un trampolino di lancio per l’Italia che avrebbe potuto sfruttare le conseguenze della “defezione” britannica per elevarsi al rango reale – e non solo nominale – di terza Potenza europea. Lo scopo, raggiungibile tramite un complicato gioco di pesi e contrappesi della nostra diplomazia nei confronti di Francia e Germania – pronte a riscuotere il “premio” del voto britannico – non è stato centrato per una serie di errori grossolani compiuti da Matteo Renzi che ha peccato, qui più di altre volte, di inesperienza sulla scena politica internazionale: il governo italiano è stato blandito ora da Parigi, ora da Berlino finendo per essere “usato”, fungendo da specchietto delle allodole tra i due contendenti, piuttosto che sfruttare la situazione a proprio vantaggio. Insomma, tra i due litiganti il terzo non ha goduto ma è finito stritolato. La scalata dell’Italia al rango di “Potenza che conta” nell’UE non è compromessa, ma il primo tentativo è senza dubbio andato a vuoto. Nel complesso la politica europea di Renzi è stata un insieme di occasioni sfumate; il “giro di boa” dell’Italia in Europa non è stato compiuto e la sudditanza nei confronti di Bruxelles e della Germania, manifesta ai tempi di Monti, è ancora presente seppur in forme diverse.

Il bilancio finale della politica estera del governo Renzi è negativo, non potrebbe essere altrimenti. Qualche buona idea seguita da qualche balzo in avanti accompagnati da un attendismo snervante e da errori grossolani non hanno in fondo scollato la diplomazia italiana dalla maledizione della sudditanza che imperversa nelle stanze nostrane del potere dal dopoguerra. Anche con questo governo – caricato di speranze messianiche al suo insediamento – l’Italia non ha preso consapevolezza del suo ruolo nel mondo. Agendo ora da “cavalier servente” degli USA, ora da succursale commissariata dell’UE a trazione tedesca, Roma non ha effettivamente declinato le crisi internazionali in cui è stata ed è tuttora coinvolta secondo la logica degli interessi nazionali. L’inesperienza ha giocato un brutto scherzo a Matteo Renzi e la condotta non ha avuto continuità passando dalle mani di una “glocalista” convinta come Federica Mogherini a quelle di uno “statalista” moderato come Paolo Gentiloni. Anzi, in più occasioni è sembrato che le nostre feluche siano state costrette a “commissariare” il Ministero degli Esteri gestendo passaggi particolarmente delicati delle vicende italiane sulla scena internazionale.