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NON E’ TRUMP. CRONACA NOTTURNA DEL PRIMO DIBATTITO PRESIDENZIALE.

trump-clinton-A cura di Francesco Severa – Non si può certo negare che passare un’intera notte in bianco per seguire in diretta uno scontro televisivo che si tiene a migliaia di chilometri di distanza tra i candidati alla presidenza di una nazione straniera è qualcosa che non può che presumere una dose non piccola di lucida follia. Eppure il clima magico che si respira durante i dibattiti presidenziali, così tradizionali ed attesi durante la campagna elettorale americana, non può che avere un effetto quasi magnetico per noi poveri europei, abituati ad una politica altezzosa e incapace di calarsi nell’umile esercizio della persuasione degli elettori. Si tratta di un vero e proprio rito, questo del dibattito, che fa incontrare modernità e tradizione, tradendo lo spirito più profondo degli Stati Uniti d’America. E’ l’idea che l’uomo o la donna che si candida a rappresentare questa nazione non solo debba essere mediatico e presentabile, rassicurante e insieme persuasivo, capace di comunicare, bucare lo schermo ed essere presente sul web, ma anche, direi soprattutto, debba essere capace di guardare negli occhi il proprio avversario, sfidarlo a colpi di battute e proposte. Insomma non si può rischiare che il futuro Presidente non sia in grado di sopportare un duello; non si può rischiare che non sia degno di quell’America creata da gente coraggiosa, che difendeva con la pistola nel cinturone il suo diritto a vivere cercando la felicità. E forse è proprio la parola “duello” quella che meglio si adatta a quanto accaduto questa notte. Da una parte Hillary Clinton, vestita in rosso repubblicano, che, dopo una prima mezz’ora di gioco in difesa contro un Trump prorompente e che continuamente la interrompeva, ha cominciato ad attaccare, colpendo il suo avversario soprattutto sulla questione razziale. Sembrava una mummia la ex first lady, imbalsamata in un sorriso che tradiva una certa finzione. Le sue risposte, certamente efficaci ed immediate, mancavano di spontaneità e davano l’idea di un lungo lavoro di preparazione. Sicuramente però, guardando al complesso dell’ora e mezza di dibattito, è stata proprio la candidata democratica a dimostrare uno stile più presidenziale e distaccato, in Italia diremmo istituzionale. Dall’altra parte Donald Trump, in cravatta blu democratico, non ha però brillato. Dopo un primo momento di pressione incalzante contro la Clinton su temi economici è sembrato quasi voler evitare espressioni troppo mordaci. E’ sembrato quasi voler evitare di essere se stesso, di essere Trump, tentando di ritagliarsi un abito più presidenziale, che certo non si addice però ad uno con la sua fama. Attendista dunque la sua strategia e certamente tarata sul lungo periodo, visto che questo è solo il primo dei tre dibattiti che precederanno le elezioni dell’otto novembre. Nei momenti di più alta tensione il miliardario newyorkese ha preferito desistere da facili colpi e attacchi che poteva portare alla sua avversaria, quasi volesse conservare per altre occasioni i dardi più appuntiti. E’ stata Hillary Clinton al contrario a non esitare a sparare tutte le sue cartucce, rischiando però di averle ormai tutte sprecate. Lo ha fatto accusando il tycoon di non voler pubblicare la sua dichiarazione dei redditi perché in realtà non avrebbe pagato le tasse; lo ha fatto citando per nome una ragazza ispanica – Alicia Machado – , che Trump durante un concorso di bellezza definì “miss piggy”, e sostenendo che la ragazza, oggi cittadina americana, avrebbe votato contro di lui alle elezioni; lo ha fatto ricordando i sei fallimenti delle sue società. A questo ha aggiunto dei colpi alquanto meschini – degni, potremmo dire noi italiani, della peggiore sinistra antiberlusconiana – nel tentativo evidente di conquistare una fetta di elettorato più spostata a sinistra. All’inizio del dibattito ad esempio, quando ha sottolineato la differenza tra le sue origini umili, con la famiglia che commerciava tessuti, e quelle di Trump, al quale invece il padre prestò quattordici milioni di dollari per avviare una società. Trump ha costretto invece la sua avversaria a scusarsi per la questione delle mail cancellate, una mossa astuta. Da questi pochi cenni si può ben comprendere quale sia stata la cifra di questo dibattito. Un continuo rimpallo di accuse reciproche, di inviti a diffidare dell’avversario, di reciproca e inusuale, per quel paese, delegittimazione. Qualcosa che certamente può servire a galvanizzare i propri elettori, ma che difficilmente riuscirà a chiarire le idee a quanti invece certezze non hanno. C’è poi forse un ultimo aspetto che non dovremmo tralasciare se vogliamo analizzare fino in fondo questo dibattito. E’ la componente emotiva. Solo la politica che parla allo spirito, al cuore ideale di un popolo diviene momento di riscatto. Su questo non c’è storia. Trump prevale. Inconsapevolmente a mio parere, ma prevale. Quando dice ad esempio che il suo piano per l’abbassamento delle tasse sarà il più ampio dai tempi di Reagan tocca la memoria di una grande quota dell’elettorato conservatore americano; quando ricorda le fabbriche che si trasferiscono in Messico, chiudendo in Ohio e Michigan e lasciando senza lavoro migliaia di persone, tocca la carne viva della classe media bianca depauperata dalla crisi economica; quando dice che l’America non può essere il poliziotto del mondo tocca l’anima profonda dei repubblicani alla Pat Buchanan. Quando invece una ricca donna bianca, avvocato in Arkansas, dichiara che la comunità afroamericana è discriminata dalla polizia, non riesce certo a sortire lo stesso effetto di quando invece lo diceva un nero professore universitario dell’Illinois.

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