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GIUSEPPE BOTTAI: UN FUTURISTA ATIPICO

– di Filippo Del Monte – Molto si è scritto di Giuseppe Bottai come ministro delle Corporazioni prima e dell’Educazione nazionale poi, come capo del fascismo romano e come ispiratore culturale del Regime, come gerarca in odor di fronda e come, al contrario, fascista ortodosso. Tanto s’è scritto sulla sua maturità eppure poco s’è detto della gioventù di Giuseppe Bottai, quando reduce di guerra decise di gettarsi a capofitto nella lotta politica entrando nei ranghi di quell’esperimento che fu il “futurismo politico” del primo dopoguerra.

Classe 1895, di famiglia toscana trapiantata a Roma, un padre d’idee repubblicane ed anticlericali, Giuseppe Bottai fu studente di liceo classico con velleità letterarie e poetiche dai toni crepuscolari che sperimentò in sdolcinate raccolte di componimenti e lettere d’amore per la sua fidanzata – e futura moglie – Nelia. Questo giovane romano ha una vaga ammirazione per Gabriele d’Annunzio con quella sua poetica tutta infarcita di arcaismi e riferimenti dotti e classicheggianti ma di politica nemmeno l’ombra; forse perché se ne parla fin troppo tra le mura domestiche, forse perché a diciotto anni nessuno ha veramente voglia di prendersi troppo sul serio. Insomma, Giuseppe Bottai ha ben altri interessi ma poi ecco che nella vita monotona del tranquillo studente arriva l’evento che gli cambia il destino: la guerra.

Scoppiata la guerra europea Bottai – febbrile divoratore delle riviste fiorentine “La Voce” e “Lacerba” – partecipò alla campagna interventista con l’ardore e l’inconsapevolezza della giovane età; guerra impolitica, guerra come straordinaria esperienza estetica alla maniera degli interventisti “esistenzialisti” o di quelli dannunziani. Essendo diplomato Bottai può essere nominato sottotenente ed in quattro anni di trincea maturerà la sua concezione politica. Prima sottotenente di fanteria, poi tenente dei mitraglieri ed infine tenente degli arditi, Bottai vive l’esperienza della guerra di massa e della politicizzazione in grigioverde; passando dalla fanteria ai reparti d’assalto subisce il fascino d’un conflitto che da scontro nichilistico tra materiali torna ad essere individualista, epico ed a tratti cavalleresco. La guerra degli arditi infatti non può essere paragonata a quella del fante-massa. Quella delle “fiamme nere” è una guerra fatta di rapidi assalti, di lancio di fumogeni e petardi, di scontri fatti all’antica maniera con il pugnale che gli arditi sanno maneggiare come nessun altro. Fanno paura gli arditi, tra i ranghi dell’Imperialregio Esercito d’Austria-Ungheria si diffonde un terrore sacro per questi reparti di italiani indiavolati, per questo corpo scelto che più di tutti è la trasfigurazione guerriera dell’animo, del temperamento e del genio italiani.

Giuseppe Bottai tenente di fanteria (1916).

Nelle pause tra un assalto e l’altro possiamo immaginare il tenente Bottai accovacciato su putridi sacchetti di sabbia a divorare le tanto amate riviste d’arte, letteratura e poesia gelosamente custodite nelle cassette d’ordinanza; letture di compagnia, letture di formazione. Diciamo “formazione” perché Giuseppe Bottai in trincea costruì pezzo dopo pezzo quel bagaglio di cultura politica che avrebbe poi utilizzato in seguito, a guerra terminata, sulle pagine dei giornali e nella militanza quotidiana. Scriverà nel 1941 il suo avversario politico più feroce all’interno del fascismo, Roberto Farinacci, che Bottai era entrato nella lotta politica “con idee e suggestioni e orientamenti personalissimi, con una certa ricchezza e delicatezza di sentimenti, con certe sue esperienze di cultura e di approfondimenti dottrinali” che lo avrebbero reso “diverso” dagli altri dirigenti fascisti ma che, già tra il 1919 ed il 1920, fecero di Giuseppe Bottai un “atipico” nel panorama politico nazionale.

Bottai diede il “merito” della sua improvvisa politicizzazione all’esperienza bellica tra i ranghi degli arditi, “fenomeno guerresco più cittadino che rurale, più operaio che contadino, e perciò più sensibile e aperto alle ripercussioni della lotta politica sullo stato d’animo dei combattenti”. Questa è una sorta di “politicizzazione implicita” che emerge come un fiume carsico anche dalle parole del tenente ardito Salvatore Farina, autore del monumentale volume “Le truppe d’assalto italiane”. Scrive Bottai che tra gli arditi v’erano “gli uomini provenienti da partiti estremi o da estreme posizioni di pensiero: ex anarchici, socialisti, sindacalisti, nazionalisti integrali, passati attraverso il vaglio rigoroso della guerra”. Insomma, impossibile non uscirne cambiati profondamente. L’introverso poeta amatoriale dell’anteguerra aveva lasciato il posto all’attivista politico dalla penna fine e dalla mano pesante, frutto di quello strano miscuglio di impegno intellettuale e scontri di piazza che erano il pane quotidiano della politica italiana dell’immediato dopoguerra.

Prima della Grande Guerra Bottai aveva vagheggiato l’esistenza di un “paese all’antica, senza lega operaia né rossa né nera” secondo i toni di certo “populismo antimoderno” d’inizio ‘900 dal sentore strapaesano. Dopo la guerra Bottai immaginò un’Italia rinnovata dopo l’esperienza sanguinosa e vittoriosa della trincea, anche se questa fase del pensiero politico bottaiano appare più come una nebulosa di difficile interpretazione che non come un sistema ideologico ben preciso. Dopotutto il giovane reduce di guerra, come migliaia di suoi coetanei, si sentiva spaesato; il conflitto aveva rotto gli schemi del vecchio mondo ma quello nuovo era lungi dal nascere. Si rimette alla ricerca del “paese” Bottai, una ricerca spasmodica tra le vie di una Roma congestionata e menzognera, tra uomini “che ti si stringono attorno, in rissa”.

Roma Futurista (N. 53, 04/01/1920)

 

L’Italia non è affatto quella che i reduci avevano immaginato di trovare al loro ritorno, nonostante la Vittoria nulla sembra essere cambiato. “Si cammina come nelle tenebre – scrive Bottai – guidati da un oscuro, profondo senso del bene” che in fondo è l’unica cosa che spinge un idealista convinto ad andare avanti. Il sogno conta molto più della realtà in questa fase, la meta conta molto più del viaggio. Il Paese “ideale” è fiero di sé stesso, consapevole dell’impresa titanica che ha compiuto; il Paese “reale” è malaticcio, pantofolaio, noioso, pedante, punta al dannatissimo “quieto vivere”. Il 4 novembre 1918 è terminata la guerra con il nemico esterno ma quella contro il nemico interno è ancora tutta da combattere. In un articolo pubblicato su “L’Ardito” datato 15 giugno 1919 Bottai tuona contro la pace diplomatica proclamando il disinteresse dei combattenti per “le firme apposte sugli stracci di carta” perché la vera pace può raggiungersi solo sulla “vigile, ferma, instancabile volontà di noi combattenti”. Il dovere dei combattenti è per Bottai uno: scendere in piazza, rendere azione le idee germogliate in trincea, urlare nelle “orecchie di questo sonnolento e dimenticone paese” che la politica è dovere, è pane quotidiano, per i reduci. Obiettivo è la conquista del potere, è la “rivoluzione nazionale” contro quelle che Mussolini nel 1918 aveva definito “cadaveri che s’ostinano a non morire” e cioè la vecchia classe politica dell’Italia liberale.

Nel frattempo Giuseppe Bottai si è avvicinato all’agguerrito gruppo politico futurista romano guidato da Mario Carli (ex capitano dei reparti d’assalto) ed Emilio Settimelli (il teorico del Cinema futurista) con Filippo Tommaso Marinetti come “sponsor” e “uomo-immagine”. I futuristi pubblicano un settimanale, “Roma Futurista”, che ha il gladio e le fronde d’alloro e quercia degli arditi come simbolo. E’ un giornale di battaglia quello del Partito Politico Futurista e Bottai – ch’è pure temutissimo “guerriero della penna” – vi scrive le sue invettive contro la “vecchia italietta” che s’ostina a non soccombere ed a vivacchiare come un parassita sulle spalle dei reduci. “Sopprimiamo le anime neutre, la solitudine è diserzione” tuona Bottai dalle colonne di “Roma Futurista” nell’ambito della sua personale crociata contro il neutralismo morale, vero “male di razza” degli italiani e, purtroppo, “spina dorsale del popolo italiano”.

Con una spinta “panpolitica” ben poco futurista e molto più vicina al nascente fascismo Bottai vuole che “la passione politica, la quale ora si rovescia schiumante di ira e di odio, sul nostro paese, si abbarbichi nelle carni e nei nervi di tutti, nessuno escluso: non vogliamo evirati”. Bottai vorrebbe che gli italiani si “de-italianizzassero”, che partecipassero alla vita pubblica; vorrebbe da loro l’abiura nei confronti della mentalità da servi che hanno assunto nel corso dei Secoli di sottomissione alle Potenze straniere. La guerra è vinta, l’Italia è libera, siano liberi anche gli Italiani!

“Sopprimiamo le anime neutre, la solitudine è diserzione”. (nella foto: Carica di lancieri, Umberto Boccioni, 1915)

In poco tempo Bottai diventa il simbolo del futurismo politico capitolino e diventa direttore di “Roma Futurista” assieme all’amico Enrico Rocca – irredentista goriziano, fascista della prima ora e poi antifascista – ed ai pittori Giacomo Balla e Gino Galli. A questo punto si pone un interrogativo, e cioè come sia stato possibile che uno come Bottai, infarcito di lettere classiche ed alla perenne ricerca del “paese ideale” disegnato con pennellate di “ruralismo tradizionalista”, abbia scelto di militare tra i ranghi dei futuristi, tutti protesi all’esaltazione della modernità ed intenti a smontare gli sgangherati pezzi della società tradizionale italiana. Un custode dello stile di vita italiano posto alla testa di un manipolo di iconoclasti professionisti come i futuristi.

La risposta si trova proprio nell’ambito della maturazione politica di Bottai. Sono l’esperienza della guerra, la frenesia rivoluzionaria e la voglia di vedere l’Italia cambiata, rivoltata come un calzino, a spingere Bottai tra le braccia del futurismo ma allo stesso tempo a farne un “futurista atipico”. Bottai non è culturalmente od artisticamente futurista, è politicamente futurista perché animato da un istinto totalitario, dalla volontà di comprendere e dominare le masse, dalla voglia matta di suscitare emozioni e di “fare politica” attraverso esse. Non a caso nel Regime fascista Bottai sarà – nonostante la carriera ministeriale – sempre più un suscitatore d’energie ed un intellettuale prestato alla politica che non un “politico” in senso stretto. E’ forse Bottai l’espressione più fulgida e chiara della dimensione “verticale” del futurismo politico e cioè di quella forma mentis futurista che sarà poi alla base del futuro percorso bottaiano che prende il nome di “integralismo politico”.

Giuseppe Bottai, un custode dello stile di vita italiano posto alla testa di un manipolo di iconoclasti professionisti come i futuristi.

 

 

 

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