Ecco perché 50 anni dai tragici fatti del Prenestino, mi sento di affermare che quella è anche mia storia. Perché tutto inizia da lì. 

A cura di Giorgio La Porta – 50 anni dall’uccisione di Mario Zicchieri, giovane militante del Fronte della Gioventù al Prenestino. Non ho mai conosciuto Mario ma è grazie a lui se ho iniziato a militare a destra. È una storia che in queste ore compie 30 anni. Avevo più o meno 15 anni e muovevo i primi passi  in un piccolo giornale di quartiere. Da pochi mesi era stato aperto un circolo di Alleanza Nazionale a pochi metri da casa mia, nel rosso quartiere Pigneto – Prenestino di Roma. Sull’insegna c’era scritto Mario Zicchieri e su un muro a pochi metri da lì la scritta gigantesca “Mario Vive”. 

Non sapevo chi fosse, ma sapevo di volerlo scoprire. Chiesi al direttore del mio giornale di avere un’autorizzazione per accedere all’emeroteca della biblioteca nazionale (ero davvero molto piccolo) e così fu. 

Passai un giorno intero a ricercare i giornali di 20 anni prima e quando li iniziai a leggere si fermò il tempo. 

I giornali non sono libri di storia. Il giornale ti riporta la cronaca di un fatto, nella sua crudeltà, senza contestualizzare. Mi trovai a leggere pagine e pagine di quell’omicidio come se fosse avvenuto il giorno prima. Iniziai a vedere le strade del mio quartiere sporche di sangue, a sentire le urla, la paura di quei ragazzi miei coetanei, a sentire le sirene della polizia, le ambulanze, i funerali.

Trascrivevo a mano sul mio blocco parti di articoli del Messaggero e del Corsera, ma ben presto dovetti fermarmi perché mentre scrivevo avevo il volto coperto di lacrime. Ero un adolescente e mi trovavo ad avere tra le mani qualcosa di molto più grande di me e come fosse morto un ragazzo di 17 anni, per me era inconcepibile. 

Proprio non riuscivo a immaginare come si fosse potuto creare quel clima d’odio nel quale ragazzi uccidono coetanei solo per le idee diverse. Portai tutto a casa e in silenzio mi misi a battere a macchina il mio articolo. Attesi qualche giorno per la pubblicazione e mi presentai con coraggio al circolo di Alleanza Nazionale. 

Un ambiente scarno, freddo, ragazzi che da una parte giravano la colla per i manifesti. Mi guardarono, con sospetto. 

Ai tempi ero davvero timido, a malapena parlavo. Mi presentai e gli dissi che avevo raccontato sul giornale del quartiere la storia di Mario e che volevo dargliene personalmente una copia per farla avere alla sua famiglia. Ci mettemmo a parlare ed ebbi modo di conoscere persone che in quel 29 ottobre del ‘75 militavano per il Movimento Sociale Italiano e conoscevano Mario. 

Da pochi mesi c’era stata la svolta di Fiuggi di Alleanza Nazionale, ma a me quel circolo faceva davvero tanto timore. C’erano persone probabilmente traumatizzate dagli anni di piombo che ti raccontavano le cose come se fossero avvenute 20 minuti prima. Feci amicizia con qualche ragazzo più grande e uno in particolare mi disse: “stiamo mettendo su il giornale per il circolo, ce lo ciclostiliamo a Sommacampagna (sede centrale dei giovani romani). Ti va di scriverci qualcosa?”. 

Iniziai così a frequentarli, con un po’ di diffidenza reciproca. Loro i primi tempi mi videro come un infiltrato di non so bene cosa, io li guardavo con un po’ di timore. No, non ero di destra. Avevo paura dell’immagine che mi ero fatto della destra. Venivo da una famiglia democristiana, ero cresciuto con un nonno iscritto clandestinamente al Partito Repubblicano durante il fascismo, un nonno che nascondeva gli ebrei in cantina durante i rastrellamenti. 

Eppure c’era qualcosa che mi piaceva maledettamente di quella destra: il leader Gianfranco Fini. Era la persona più pacata, moderata e decisa del panorama politico. Quando parlava a Porta a Porta o al Maurizio Costanzo Show in casa si creava il silenzio e si ascoltava con rispetto. 

Quando pochi mesi dopo i giovani del circolo mi invitarono ad andare alla mia prima manifestazione di piazza a Milano, a casa non dissero nulla, semplicemente perché “andavo da Fini”. 

Era il 15 settembre del 1996 e mentre Umberto Bossi farneticava castronerie sulla secessione della Padania, noi andammo a Milano col tricolore a una manifestazione dal titolo “8103 comuni, un’unica Patria”.

Tornai a casa stanchissimo ma contento. Ero stato per la prima volta in piazza, avevo dato i miei primi volantini, dormito su un pullman insieme a ragazzi più grandi, conosciuto il mio migliore amico Andrea e deciso che quella destra non solo non mi faceva paura, ma sarebbe stata la mia comunità politica. Su quel pullman ascoltai una canzone dal titolo ‘il domani appartiene a noi’ e un’altra che raccontando il clima di quelle sezioni diceva: ‘ricordo ancora la stanza, dove ti ho conosciuto, non eravamo poi molti a frequentare quel buco”. 

Fu solo questione di giorni prima di iscrivermi al partito, sebbene ancora minorenne. 

Quello che avvenne dopo è la storia di un quartiere della periferia romana. L’impegno divenne sempre più costante: tra il giornale, il circolo e la politica al liceo c’era ben poco tempo per altro. Ma in realtà non è che ci fosse molto altro da fare. L’alternativa erano il muretto, le sale giochi, i motorini. Qualche ragazzo più ricco poteva permettersi la palestra, ma non era affatto una cosa comune. 

E’ solo con il duro e costante lavoro degli anni successivi che divenni il più votato di Alleanza Nazionale nel quartiere. Non solo quella comunità politica si fidava di me, ma mi votava per essere eletto nell’amministrazione pubblica.

Poi come sia finito a lavorare in Parlamento a soli 21 anni e al Parlamento Europeo poi, è parte di una storia folle.

Per questo ogni giorno onoro quella storia e l’impegno di tanti militanti politici. No, non è un lavoro e non è una semplice passione ma è qualcosa di più. 

Perché oggi parlo ogni giorno con 300 mila persone, soprattutto giovani, che mi seguono sui social e mi invitano nelle scuole a parlare di foibe. 

E quando a febbraio un ragazzo di 17 anni a Teramo dopo un’ora di dibattito sulle foibe si è avvicinato timidamente e mi ha donato il giornalino della scuola con il suo articolo su Norma Cossetto, mi è scesa una lacrima. Perché in quel gesto c’erano Mario, Sergio e un’intera comunità politica che anni prima aveva fatto lo stesso gesto.

Lì c’è qualcosa che vive a prescindere da noi e che si tramanderà di generazione in generazione. Una storia infinita, appunto.