A cura di Francesco Severa – Viviamo in un mondo che nutre una profonda diffidenza di principio nei confronti dei fatti. La realtà delle cose che sono e che percepiamo, direi la tangibilità degli avvenimenti che ci accadono intorno, non rappresentano più un dato di incontrovertibile certezza. Per essi è sempre necessaria una forma di distorsione – spesso anche semplicemente linguistica – che li renda innocui e comunque adattabili ad una delle tante ideologie del momento. E’ un mondo che vive di comunicazione e di apparenze. Un mondo che non ha bisogno della Verità, ma che si accontenta del verosimile. Un mondo che vive una diabolica tensione al conformismo, all’annullamento delle differenze e delle identità, pensando erroneamente che così facendo si possano trasformare i popoli e le nazioni in un grande minestrone in cui patate e zucchine alla fine finiscono per avere lo stesso sapore. Un mondo in cui si esalta sopra ogni cosa l’umana libertà di scegliere perfino le proprie personali ed arbitrarie verità, per poi invece accorgersi che le opzioni a disposizione sono ognuna copia sbiadita dell’altra. Le ideologie, le religioni, perfino le tradizioni sono presentate alla fine come versioni indifferenti dello stesso prodotto. Se questa è la modernità, si può allora affermare con certezza che il Natale è la più anti-moderna delle festività. Lo è in quanto ci ricorda ogni anno, con santa puntualità, che in un luogo specifico di questa nostra terra, in un momento predestinato della storia, Dio si è fatto uomo ed è venuto ad abitare in mezzo a noi per la nostra salvezza. A tutte le infinite possibili verità del moderno relativista, il Natale sostituisce la Verità di un avvenimento, la Verità di un determinato fatto. Direbbe Giacomo Biffi che “i fatti non si scelgono, i fatti sono”. All’Uomo smarrito il Cristianesimo non offre sbiadite filosofie, ma offre la possibilità di sperimentare un incontro. Quel Bambino che giace nudo in una notte fredda dentro una mangiatoia è il segno di una solenne promessa di riscatto. I limiti umani, le nostre paure, le nostre imperfezioni, le nostre miserie, il male che sembriamo sempre essere tentati di seguire, non rappresentano altro che un’infima eccezione ad un destino di salvezza. Quel Bambino è lì a testimoniare che Dio ha teso una mano all’Uomo. Anzi di più. Quel Bambino che nasce rifiutato e solo, che irradia la sua luce lontano dal clamore, in un luogo miserabile, di notte, dimostra come Dio, anche se respinto, è venuto a sfondare i muri che chiudono il cuore degli uomini. A questa grande Verità che il Natale ci offre, l’uomo moderno però risponde stizzito: “io non ho bisogno di essere salvato!”. Esiste la profonda convinzione in questa nostra epoca che siano gli uomini forti a dover prevalere. Quelli capaci di comandare il proprio destino contro la realtà, contro la propria coscienza, contro Dio. Ma è proprio quando, in questo suo volo spericolato, arriva a spogliarsi di tutto meno che di se stesso, l’uomo forte comincia a precipitare. Arriva sempre e puntuale il momento in cui ogni uomo fa i conti con le proprie debolezze, con i propri timori, con il male che può sempre sopraffarlo. E allora arriva il buio, la convinzione che la felicità sia alla fine un’effimera goccia in un mare di sofferenze. Il Bambino di Betlemme ribalta questa logica. Egli fa sua la fragilità umana, ne diventa simbolo potente, nudo e indifeso in quella piccola mangiatoia. Eppure quella fragilità può contenere Dio. Se siamo capaci di riconoscere i nostri limiti, Cristo ci da la certezza che l’uomo può aspirare alla santità. Ribaltando la nostra logica umana e “rimettendoci nel verso giusto”, Cristo a noi da la certezza della felicità eterna e la consapevolezza che il dolore è solo una precaria e fuggevole condizione. Nel Natale opponiamo al moderno relativismo che ci rende insulsi e ammuffiti, la viva gioia di quanti sperimentano l’unicità di sentirsi umani. Natum videte regem angelorum.