A cura di Francesco Severa – Le pietruzze di un acciottolato sentiero a scivolare leggere tra il giallo secco della paglia e il muschio color smeraldo. Le chiazze bianche son le pecore, immancabili, tra statue di pastori adoranti ed angeli di cartapesta. La capanna è di legno e sughero, forse certo all’apparenza più solida di quella di Betlemme: dentro la Santa Famiglia al completo, con tanto di asino e bue. In quelle miniature e nel disegno di quell’ambiente, gioco di bambini, vi è tutta la potenza di un mistero.

Il presepe è l’espressione più nitida di quel sentimento, italianissimo, che vuole cercare il sacro nell’umano; che non intende tali dimensioni come distinte e lontane, ma come sfere complementari, amorevole e reciproca partecipazione. Nella bellezza e nella nitida perfezione della materia lavorata e tessuta dall’uomo Dio appare. Apparuit è l’invocazione che la Chiesa ci rivolge a Natale. Dio si fa carne, si mostra, e non lo fa nella potenza del soprannaturale ma nell’innocenza di un bimbo. Questo è un fatto, un evento incontrovertibile che entra nella storia, che segna la storia e la segna nell’amore e non nella paura. La Verità si rivela e il presepe è il simbolo tangibile di quanto Dio si sia fatto vicino, di come ci abbia dato la forza di guardare in alto oltre ogni nostra possibilità, contro ogni nostra possibile speranza. L’incarnazione prelude alla resurrezione, l’innocente che sarà vittima ed, in quanto vittima, vincitore.

Il rischio è però concreto. Sta tutto nella mortificazione di questo significato tanto potente quando il presepe viene usato come strumento politico. Dobbiamo avere a che fare con chi la Natività ce la somministra appoggiata su un barcone, trasformandola nel vessillo del sincretismo alla buona, pensando che il Divino Bambino, piuttosto che rappresentare la Via, la Verità e la Vita, sia alla fine il simbolo di uno scialacquato invito, meno impegnativo e più relativo, al “volemose bene” universale. Dobbiamo avere a che fare con chi il presepe ce lo presenta come una bella tradizione (scritta così, senza lettera maiuscola) da salvaguardare, un po’ come l’amatriciana a Roma. Se ne difende la cifra identitaria e popolare, fondamentale certo, ma se ne travisa spesso il contenuto simbolico, totalitario, universale. Il presepe non è tradizione, ma Religione.

In quella lontana notte di Natale del 1223, Francesco d’Assisi, il più italiano tra i santi ed il più santo tra gli italiani, ricostruì tra le montagne intorno a Greccio la dolce scena di Betlemme. Fu il primo a cogliere nella Cristianità l’importanza del Natale, anche in rapporto con la grande festa della Pasqua. In quel Dio fatto uomo che rischiara la notte noi troviamo la certezza di non essere soli nel buio. Perché Dio possiamo afferrarlo, toccarlo, sentirlo, accarezzarlo in quel Bambino. Per farlo non serve la “ragione illuminata”, non serve nemmeno uno slancio mistico: basta essere noi stessi, tornare a noi stessi e trovare, riscoprire, lì dove sempre è stata, la Verità. Quella Verità che esige Fede, che esige conversione, che esige affidamento. Il coraggio della speranza che è vita totale. A noi sta, nella umile semplicità del presepe, cercare la meraviglia di questo mistero!