– di Filippo Del Monte – Nella storia d’Italia pochi scrittori hanno influenzato il pensiero e l’azione degli Italiani. Se si dovesse fare un nome su tutti senza dubbio il nome che da tutte le bocche uscirebbe sarebbe quello di Gabriele D’Annunzio, il Vate, l’ imaginifico, l’arcitaliano cantore di passioni, amori ed eroismi. A pochi, forse a nessuno, verrebbe in mente di fare il nome di Renato Serra, uno dei “grandi sconosciuti” del ‘900 letterario e politico italiano. Il cesenate Serra, morto trentenne in battaglia sul Monte Podgora nel 1915, lo scrittore e critico d’impronta carducciana, il pensatore tradizionalista e nazionalista, il “megafono” della frangia “esistenzialista” dell’interventismo.

Discendente di una famiglia di tradizioni risorgimentali, Serra fu allievo nell’ateneo bolognese di Carducci ed ammiratore di Severino Ferrari, il “Pascoli mancato” e socialista nazionale che vedeva nella gioventù fin de siècle la potenziale leva del riscatto per una società italiana ormai “imborghesita” e priva di slanci vitali ed eroici. La conoscenza del pensiero di Ferrari influenzò profondamente il giovane Serra, anche quando lo scrittore cesenate scelse di aderire al nascente nazionalismo d’impronta maurrassiana rappresentato in Italia da Enrico Corradini e da quello che sarebbe poi diventato il gruppo de La Voce.

Fu però con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale che Serra ottenne una notorietà insperata, anche grazie al suo interventismo “diverso”. Se da una parte le riviste fiorentine formarono il nucleo ideologico dei futuri ufficiali di complemento – la vera ossatura dell’Italia mobilitata – è anche vero che la carica culturale di quei fogli finì per “risucchiare” altre forme, magari minoritarie, interessanti dell’interventismo monopolizzando sotto certi aspetti tutta la “letteratura dell’intervento”. A fare da contraltare all’interventismo “letterario” delle riviste c’erano i gruppi dell’interventismo “politico” con epicentro Milano ed a vocazione sindacalista-rivoluzionaria, social-nazionale e democratico-repubblicana. Renato Serra riuscì a ritagliarsi uno spazio indipendente rispetto a questi due importanti blocchi politico-culturali posizionandosi sì nell’ambito dell’interventismo nazionalista, e dunque di “destra”; ma soprattutto cercò nella guerra una risposta alla crisi esistenziale che investiva l’individuo di inizio ‘900.

Manifestazione interventista a Milano (maggio 1915). Serra fu sempre lontano dai toni accesi ed estremistici della campagna politica dell’interventismo.

Guerra come fruizione psicologica ed estetica, guerra come ultimo rifugio dai doveri asfissianti della “società dell’apparenza”, guerra come punto d’arrivo di una generazione di giovani che aveva ambito a rovesciare un sistema in cui si sentivano stretti, in cui l’intelligenza veniva intrappolata e la stupidità liberata e portata in trionfo. I toni di Serra sono lontani da quelli dell’interventismo “muscolare” e della guerra/festa di Marinetti e dei futuristi così come è lontano dal dissacrante e truculento peana di Giovanni Papini al “caldo bagno di sangue” che aveva investito l’Europa. Sganciatosi dal composito interventismo “ufficiale”, Renato Serra nel suo “Esame di coscienza di un letterato” (opera scritta sei mesi prima di trovare la morte in combattimento) racchiuse tutte le ansie e le speranze che lo avevano investito in quei mesi di convulsa campagna interventista; così facendo però divenne il “portavoce” d’una intera generazione che stava svestendosi dei panni borghesi per indossare il grigioverde gettandosi nella fornace della nostra guerra di redenzione.

Secondo Mario Isnenghi l’Esame fu la “personalissima registrazione dei moti segreti del proprio animo, ma – insieme – l’enucleazione lucidissima delle ragioni prepolitiche dell’uso della guerra da parte degli intellettuali”, cioè una forte ed al contempo criptica critica all’idea della “guerra per la guerra” che aveva investito parte delle avanguardie culturali italiane, ma anche l’idea della guerra – e più in generale del conflitto politico e sociale – come principio insito nella natura umana e slegato nell’esperienza diretta dai grandi processi storici che la generano. Dunque una teoria del conflitto in piena regola quella che si nasconde nelle confessioni di Renato Serra accompagnata alla paura di mancare il proprio appuntamento – individuale ed insieme collettivo – con la Storia.

«Questo momento, che ci è toccato, non tornerà più per noi, se lo lasceremo passare. Invecchieremo falliti. Saremo la gente che ha fallito il suo destino» scrive Serra, la mano che stringe la penna mossa dalla paura di non rispondere alla chiamata della Storia, di non fare il dovere per cui era nato. Parole da sbattere in faccia a quanti oggi, corrosi dal “quieto vivere” e dal “pantofolismo” di ritorno, si rifiutano di prendere in mano il proprio destino e quello del proprio Paese. Ecco, Serra è la risposta che il proprio dovere va fatto per la propria comunità ma anche per essere in pace con sé stessi, per non invecchiare da falliti. Serra rifiutò la gente “sciupata e superba” che attendeva sul margine estremo la grande prova con la paura di saltare nel vuoto; lo scrittore cesenate il suo slancio lo prese arruolandosi volontario con il grado di tenente in fanteria, marciando tra quei soldati proletari così ben descritti da Curzio Malaparte ne “La rivolta dei santi maledetti“. Ed in quei “santi maledetti” in marcia, ignari fantaccini, il consapevole ufficiale volontario Serra vedeva “gente legata alla stessa sorte, che s’incontra e si riconosce”. 

Postazioni italiane sul Monte Podgora (1916)

Nelle marce, nelle soste condivise nei piccoli paesini nelle immediate retrovie e poi nella quotidiana vita di trincea il tenente Renato Serra ricerca di tornare “uomo tra gli uomini”, di integrarsi e radicarsi con il popolo in armi. “Andare insieme” è il motto del Serra soldato come carpe diem avrebbe potuto essere quello del Serra intellettuale nazionalista d’estrazione borghese. Nella Terza battaglia dell’Isonzo, il 20 luglio 1915, durante un furioso assalto delle nostre fanterie contro gli austriaci arroccati sul Monte Podgora, Renato Serra cadde ferito a morte nella terra di nessuno alla testa dei suoi fedeli ed amati soldati. Prototipo del “tenentino” fratello e padre di quei rudi proletari in grigioverde, Renato Serra compì il suo destino rispondendo a quella che era stata la “chiamata” per la sua generazione.

Renato Serra è sicuramente un pensatore da riscoprire per una destra che ha perso la bussola, per una Nazione priva di scopi, ma soprattutto per una gioventù – impegnata in politica o meno – ormai priva di riferimenti, simboli, miti in cui rispecchiarsi. Tramontate tutte le speranze del ‘900, esse rivivono nelle parole di quei profeti dimenticati ma che andrebbero ripresi. Sarebbe giusto dare una nuova vita letteraria a Renato Serra, l’eroe “antieroico” del nazionalismo italiano, padre, anzi, fratello maggiore di una nuova generazione militante ancora tutta da costruire.

Renato Serra in uniforme da tenente pochi giorni prima della partenza per il fronte.