– di Filippo Del Monte – La morte di 72 civili nella Provincia di Idlib provocate dal gas sarin è solo l’ultimo episodio figlio della continua violazione del cessate-il-fuoco mai rispettato in Siria. Immediatamente dopo l’attacco chimico – di cui non si troverà il colpevole – gli ingranaggi del “grande gioco” diplomatico in Siria hanno ripreso a funzionare. Perché le guerre non si combattono solo sul campo di battaglia, ma anche nelle stanze dei bottoni e le reazioni scomposte delle cancellerie occidentali, del Cremlino e di Ankara ne sono la riprova. Tre membri permanenti del Consiglio di Sicurezza ONU (Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia) hanno preparato una bozza di risoluzione in cui si impone alle autorità damascene di collaborare all’indagine per appurare le responsabilità della strage.

Di pari passo la Russia ha mostrato il suo sostegno al presidente siriano Assad fin dalle ore successive all’attacco accusando i ribelli di essere gli autori materiali dell’azione ma soprattutto svincolandosi da ogni responsabilità in merito negando il coinvolgimento di aerei russi nel bombardamento del deposito di testate chimiche in mano all’opposizione. Di tutt’altro avviso la Turchia, con Erdogan che ha tuonato contro Damasco accusando i governativi. Le prese di posizione di Mosca ed Ankara – scontate quanto si vuole – sono comunque importanti perché questi due Stati si erano fatti garanti della tregua stipulata tra le forze governative e quelle ribelli. I dati dimostrano che sul campo la tregua viene violata costantemente, si dice ogni due minuti, da ambo le parti; questo a dimostrazione del fatto che il cessate-il-fuoco non è la base per il dialogo (come certa stampa ha voluto far credere) quanto un modo come un altro di ritardare lo scontro frontale che non conviene alle grandi Potenze coinvolte.

La situazione militare in Siria a marzo 2017

Il portavoce di Putin, Dmitri Peskov, ha dichiarato che la Russia continuerà a sostenere Assad nella “campagna anti-terroristica” mentre la Turchia si è sobbarcata le cure per i 30 sopravvissuti all’attacco ricoverati ora nell’ospedale di Gaziantep, nell’Anatolia sud-orientale. La spaccatura politica tra le Potenze “garanti” è evidente e questo aggraverà la situazione sul campo di battaglia nei prossimi giorni. Il nodo della questione resta Bashar al-Assad la cui posizione è uscita rafforzata dall’ultima fase del conflitto, con le milizie del Califfato in ritirata ed i ribelli sempre più fiaccati dalle continue offensive delle truppe governative. Con il supporto di Russia ed Iran il presidente siriano ha le spalle politicamente coperte, ha il sostegno di due players pesanti, capaci di mostrare i muscoli sia militarmente che diplomaticamente. Nei fatti la diplomazia siriana è “commissariata” da Mosca e Teheran ma questo per Assad sembra essere un buon prezzo da pagare per restare in sella.

Se fino all’intervento militare russo Assad era dato praticamente per spacciato, allo stato attuale della situazione le cancellerie occidentali più interessate al conflitto levantino – Parigi e Londra – hanno dovuto accettare il fatto che Damasco resta una realtà politica attiva ed operante. Inoltre la comparsa sulla scena dello Stato islamico è stato un “toccasana” per l’immagine internazionale del governo siriano, il cui impegno militare e politico nella lotta all’islamismo va riconosciuto. Il contributo di sangue dei governativi siriani alla lotta contro ISIS è una carta importante nel mazzo di Assad, anzi, forse è la sua arma politica migliore, ben più della legittimità del proprio potere che non ha mai fatto breccia in sede diplomatica.

Al di là delle due conferenze di questi giorni a Bruxelles sulla Siria, i negoziati sono in realtà in una fase di stallo. Lo si è detto, il rafforzamento di Assad ha rimesso sul piatto una possibilità che sembrava ormai accantonata per la fase post-bellica: un ritorno allo status quo. La stessa Gran Bretagna, per bocca del proprio ministro degli Esteri Boris Johnson, ha dovuto aprirsi alla possibilità che il Partito Baath – se non proprio Assad – resti al potere in Siria. Se le dichiarazioni di Johnson siano state strumentali ad aprire canali diplomatici nuovi per una Gran Bretagna post-Brexit è tutto da vedere; però è innegabile che esistano crepe nello schieramento anti-assadista più radicale. La collaborazione millantata tra Mosca e Washington in funzione anti-ISIS potrebbe inoltre aprire nuovi scenari per la vicenda siriana ancora tutti da decifrare. Di una cosa però si può essere sicuri, l’obiettivo di breve-medio termine del conflitto, cioè la rimozione di Assad, non è stato centrato e l’intero apparato politico-militare ribelle è entrato in una crisi irreversibile.