Analisi del fenomento dei gilet jaunes e della protesta che sta facendo tremare la Francia e l’intera Europa.

A cura di Luca Zanon – Quando ho visto le prime immagini dei gilets jaunes francesi, ammetto di essere da subito riuscito ad inquadrare il fenomeno. Situazioni del genere sono sempre difficili da inquadrare, perché il confine tra “protesta politica dal basso” e “folla incazzata con la bava alla bocca” è molto labile.

Tuttavia, fin da subito si è percepita la portata storica degli eventi che si stavano dipanando. Ed anche una folla incazzata ha un suo significato politico – come il Movimento Cinque Stelle ci dimostra da qualche anno a questa parte. E quindi valeva la pena approfondire.

In giro si trovano le più svariate analisi sul tema, ma quella che va per la maggiore è la lettura delle proteste come una spaccatura “popolo – élite”, una visione che va tanto di moda negli ultimi anni.

Io sono sempre stato scettico su questo tipo di analisi: una cleveage politica presuppone sempre due parti in gioco (cattolici – laici, ricchi – poveri, istruiti – non istruiti, e via dicendo), e nella spaccatura “popolo – élite” ho sempre visto solo una delle due parti; chi dovrebbe essere l’élite? I super ricchi? Non è raro che il Jeff Bezos di turno debba ingoiare grossi rospi che sicuramente l’élite, come è concepita in questo tipo di analisi, non ingoierebbe mai. Ricordiamo, ad esempio, quando Zuckemberg venne messo alla sbarra per spiegare al Congresso Americano cosa sono i bot. È verosimile che una delle pochissime persone che dovrebbero controllare il mondo, si debba abbassare a scene tragicomiche come quelle viste in quell’occasione? Decisamente no.

Le società più o meno segrete? I gruppi di interesse sono sempre esistiti e, in retrospettiva, sono convinto che abbiano perso potere col passare dei decenni, non che l’abbiano guadagnato. Il ‘900 è stato un secolo che ha portato una profonda democratizzazione delle società, e chi ha ceduto potere sono proprio gli special interests.
La burocrazia statale? Forse, tuttavia è sbagliato considerare tale burocrazia come un ente unico con un’agenda omogenea; l’unico vero obiettivo del burocrate è quello di autoperpetrarsi – in altri termini, di mantenere la propria carega intatta. Il che non significa che nel suo agire non segua una scala di valori o di interessi, ma che questi ultimi sono assolutamente secondari rispetto al mantenere il sedere al caldo. Si, i Gilet Jaunes combattono la burocrazia, ma non per i motivi e gli scopi che vengono attribuiti.
Quindi, contro chi combatte il popolo? Contro nessuno, perché è una parte di popolo che combatte contro un’altra parte. Mi spiego meglio: il popolo è un termine accattivante per nascondere la vera spaccatura in atto, perché essa è una frattura molto più dirompente e molto più difficile da gestire rispetto a quella, inventata, tra popolo ed élite: quella tra centro e periferia.

I gilet jaunes non protestano contro una supposta oligarchia; protestano contro il sistema delle megalopoli occidentali, di cui Parigi è la prima rappresentante in Francia; città proiettate verso il futuro, liquide, dove non esiste un passato ma solo un presente effimero ed un futuro percepito come grandioso. Sono questi poli di aggregazione che, in Europa ma ancora di più negli USA, hanno guidato l’Occidente in questi ultimi 10 anni, mettendo le periferie sul sedile posteriore. Hanno preteso dagli Stati un trattamento privilegiato – e l’hanno avuto, ed è su questo che i gilet jaunes protestano; non è un segreto che gli investimenti pubblici si siano concentrati soprattutto nelle grandi città e le policies abbiano seguito questa logica punitiva verso la periferia. Le politiche ambientali, ad esempio, puniscono principalmente la periferia e danno beneficio soprattutto alle grandi città. D’altronde, la ripresa dopo la Crisi del 2008 è partita ed è stata alimentata dall’incredibile balzo tecnologico delle grandi città; a scapito, ovviamente, delle periferie, che hanno avuto il compito di fornire supporto logistico e manovalanza, beneficiando della ripresa ma in misura molto minore rispetto alle città.

Come ci insegna la Rivoluzione Francese, le rivoluzioni nascono dalla disparità di condizioni tra gli individui, e non dal benessere effettivo degli stessi. E quindi anche se le periferie stanno meglio, grazie alle città, la disparità tra le due si amplia costantemente. E nel 2016 abbiamo assistito alla prima ribellione della periferia: Brexit sembrava uno scherzo del destino (e forse lo è stato), ma ci ha mostrato per la prima volta che la periferia dissentiva profondamente dal modello cosmopolita londinese. Poi c’è stato Trump: un Presidente rappresentativo delle periferie americane che soffrono l’abissale distanza culturale ed economica con San Francisco o Seattle.

La crescita dei localismi (non chiamiamoli populismi, per favore, non lo sono) in Europa, va vista sotto questa lente: la periferia che sfrutta la leva politica per cercare di contrastare lo strapotere del centro in chiave prima di tutto economica ma anche culturale.

La leva politica, però, non basta; come dicevo prima, la frattura centro – periferia è la più insidiosa perché non è facilmente risanabile. Per rendere omogenei dei territori che non lo sono servono decenni, non c’è garanzia di successo, e qualcuno deve perdere perché altri guadagnino. In Italia abbiamo avuto il più grande esperimento sociale di omogeneizzazione di territori disomogenei, e due secoli dopo possiamo tranquillamente dire che è fallito sia culturalmente che economicamente. Le forze localiste tentano e tenteranno di utilizzare l’immensa forza economica dello Stato per recuperare terreno sulle città, ma è un progetto che non può funzionare; le città occidentali si sono evolute in questo modo perché quel modello è  competitivo con l’Oriente, e frenarlo significa frenare la locomotiva che porta avanti l’economia occidentale. Il reddito di cittadinanza pagato dai Milanesi non porterà la ricchezza a Campobasso, porterà la miseria a Bovisio. E ciò genererà una reazione delle città, in una continua escalation.

I gilet jaunes sono il passo successivo: fallita la strada politica, c’è l’atto di forza, ed è quello il momento in cui, forse, c’è la possibilità di gestire la frattura. Non con la violenza, ovviamente, ma con un riassestamento degli Stati improntato ad una maggiore sussidiarietà. Piccoli Stati, leggeri o pesanti a seconda delle necessità del territorio, dove lo Stato centrale sia un semplice arbitro nella sfida tra le varie zone. Con la possibilità, quindi, da parte delle città di esprimere il proprio potenziale senza però pesare sulle periferie che potranno, a loro volta, determinare da sé cosa vogliono essere, senza dipendere da ciò che viene deciso a Roma, Parigi o Berlino.  Non è detto, in fondo, che la risposta alla modernità delle megalopoli sia l’unica possibile, né che sia la migliore. Ciò che è essenziale è permettere ai singoli territori di sperimentare e trovare da sé la propria posizione ideale nel mondo globalizzato. La scelta politica è, quindi, non tanto se permettere che una devolution venga attuata ma, piuttosto, se essa venga portata avanti in modo pacifico, tramite la cessione di poteri da parte dello Stato centrale alle realtà locali, oppure se essa sarà il frutto della lotta politica dei vari indipendentismi, che dopo 70 anni di irrilevanza stanno tornando sull’agone politico, consapevoli del loro potenziale dirompente.