A cura di Giorgio La Porta – Era il 27 marzo del ’94 quando una ondata azzurra spazzava via la Prima Repubblica portando in Parlamento il più grande rinnovamento di parlamentari nella storia repubblicana. A condurre questa crociata di libertà, contro la ‘gioiosa macchina da guerra’ del Pds di Achille Occhetto, vi era il giovane imprenditore televisivo, Silvio Berlusconi, pronto a mettere a disposizione del Paese la sua esperienza per innovare l’Italia. Ciò che è avvenuto nel ventennio successivo è ancora oggetto di attualità politica, ma l’aspetto che vorremmo prendere in considerazione in questa ricorrenza che sarà piena di racconti epici è il cosiddetto bicchiere mezzo vuoto, ovvero cosa non ha funzionato nella realizzazione del nuovo miracolo italiano.

3 anni fa ha preso di nuovo vita Forza Italia, dopo la terza dolorosa scissione del Popolo della Libertà che nel frattempo aveva visto allontanarsi dapprima Gianfranco Fini, poi le truppe della Meloni, di Alfano, di Verdini e infine di Fitto.

Perché tante persone, berlusconiane della primissima ora, hanno deciso di non far più parte di questa nuova esperienza che anche nella peggiore delle ipotesi gli avrebbe comunque garantito di stare in un partito senza problemi di sbarramento?

Sto sfogliando sul pc l’album dei ricordi e vedo le foto del primo Governo del ’94, poi quello del 2001 e infine quello del 2008. Tante, troppe persone hanno abbandonato Silvio Berlusconi e non penso che lo abbiano fatto soltanto perché invidiose o improvvisamente impazzite. Ci sono tanti spazi bianchi di foto mancanti in quell’album, i professori universitari, i costituzionalisti, tanti amici di sventura che ora non fanno politica con altri, ma semplicemente hanno smesso perché delusi e senza più voglia di mettersi in gioco. Figure centrali che occupavano gli Interni, gli Esteri, la Cultura, hanno deciso di tenersi lontano dalla nuova Forza Italia 2.0.

Non si potrebbero solo stappare bottiglie e lanciare coriandoli azzurri senza domandarci cosa non abbia funzionato nell’azione tanto di Governo, quanto di controllo e di opposizione, da parte di un partito che ha rappresentato metà del corpo elettorale italiano.

I bilanci fanno paura perché dopo 23 anni non si è creato un successore, perché per trovare un degno consigliere politico bisogna tornare nelle aziende di famiglia a cercare un dipendente fidato, quando sul territorio ci sono ragazzi di 40 anni che hanno speso metà della loro vita nel diffondere il verbo berlusconiano, ragazzi che sono cresciuti nelle università prendendosi insulti dai collettivi rossi e altri che quotidianamente, anche nelle regioni più rosse, hanno tenuto alta la bandiera del centrodestra. Ma nessuno di loro è degno di entrare in via del Plebiscito per fare il dirigente o il deputato. Non c’è un Renzi nel centrodestra e non c’è un sistema che permetterebbe ad un giovane chiamato Matteo che 20 anni fa aveva 19 anni di crescere, candidarsi alle primarie e diventare non dico premier ma almeno deputato. Quale è stato il metodo di selezione della classe dirigente, quali sono stati gli incentivi dati alla società civile per entrare in politica per darsi da fare e cambiare le cose come diceva l’imprenditore Berlusconi?

Alla prova dei fatti è stato un vero e proprio fallimento. Lo spot di un sogno che nel tempo è diventato un’utopia.

Un’utopia che per assurdo o per eterogenesi dei fini ha avvolto e contagiato la stessa sinistra come un virus che a breve gli sarà letale.

Abbiamo così Forza Italia che è ridotta ad una guerra fratricida tra correnti interne per entrare ed uscire dal cerchio magico e garantirsi una sopravvivenza politica, il centrodestra smembrato in 5-6 piccoli partiti che per avere visibilità mediatica si accoltellano quotidianamente danneggiando l’immagine di una coalizione affidabile che garantisce una governabilità e una stabilità. Per assurdo, la sinistra si è adeguata al berlusconismo che tanto criticava e ora finalmente ha capito, con un paio di decenni di ritardo, che è importante parlare di cose concrete con il linguaggio comune della gente, entrando nelle case con cordialità, tenendo lontano il politichese e gli atteggiamenti snob di una presunta integrità morale e superiorità culturale.

Al centrodestra non servono vecchi o nuovi miracoli italiani, ma un progetto condiviso e delle regole certe, quelle regole che in questi anni sono mancate e hanno trasformato un partito in un far west dove il più arrogante poteva alzare la voce. Ci vuole un riequilibrio interno dei poteri sul modello dei check and balance teorizzato da Montesquieu, dove la minoranza che esce sconfitta dai congressi possa controllare l’operato dei vincitori. Appunto, servono dei congressi. Quelli veri, senza effetti speciali e coriandoli, dove i dirigenti politici si possano incontrare con gli esponenti locali e confrontare davanti a una piattaforma valoriale e programmatica, uno statuto e degli emendamenti per discutere, litigare e per poi uscire il giorno dopo con una linea politica chiara che non preveda l’espulsione di chi possa pensarla diversamente, ma intenda includere le varie sensibilità culturali in un discorso più vasto e lungimirante.

Serve un modello europeo di centrodestra dove un leader non sia la personificazione di un partito. In tutta Europa il centrodestra ha avuto molte occasioni per governare e portare a casa degli ottimi leader che hanno permesso al PPE di essere il partito di maggioranza relativa nel Parlamento Europeo. A differenza nostra però, in nessuna di queste esperienze avevamo l’esasperata personificazione del partito. Abbiamo sempre sentito parlare del Partido Popular spagnolo e non di Forza Rajoy, di Cdu tedesca e non di Forza Angela, di Ump francese e non di Forza Fillon e la distinzione non è solo verbale ma sostanziale. Sono grandi partiti storici che hanno dei leader che danno il loro contributo per anni e ne caratterizzano l’azione politica, ma poi tornano in panchina, senza troppi problemi, per lasciare spazio alle giovani generazioni.

Il centrodestra italiano deve cogliere nella sua storia la straordinaria l’occasione di un divenire dialettico di hegeliana memoria: dalla tesi di una forza fortemente innovativa all’antitesi di un partito accentrato e senza ricambio generazionale per arrivare ad una buona sintesi di un nuovo centrodestra che riconosca i suoi errori e i suoi limiti e che mettendo delle regole certe e rigorose sappia però anche valorizzare le sue peculiari potenzialità per affrontare quelle sfide innovatrici che permetteranno alla maggioranza del popolo moderato di ritrovare la propria identità politica.