-di Alessio Marsili e Filippo del Monte- Ufficialmente lanciata il 12 maggio -con la fase finale dell’offensiva iniziata lo scorso 21 novembre-, dopo oltre 7 mesi di combattimento, 700 caduti ed oltre 3500 feriti, la battaglia di Sirte è giunta al termine: progressivamente seppur ininterrottamente le milizie filogovernative di Misurata sono avanzate nella città costiera ed hanno recentemente affermato di aver strappato agli uomini di Daesh in Libia la loro ‘capitale’. Per oltre un anno e mezzo proprio Sirte, antico bastione del Colonnello Gheddafi e città dove egli venne assassinato nel 2011, è stata sotto il pieno controllo dell’IS. Mentre tra i vicoli della città costiera i miliziani governativi affrontavano le forze scelte del Califfato islamico, sul piano politico si combatteva una battaglia ancora più dura tra le varie forze riunite ( più per convenienza che per convinzione) attorno alla traballante leadership del premier tripolino al-Serraj. Le milizie di Misurata sono espressione di un progetto politico orientato sull’islamismo “moderato” ed ostile a qualunque interferenza straniera, sia essa dei vicini mediorientali o degli alleati occidentali, nel nome della rivoluzione anti-gheddafista. Di contraltare le milizie di Tripoli che tengono in ostaggio il gruppo di al-Serraj e che ad un generico richiamo “patriottico” in difesa della rivoluzione del 2011 accompagnano la gestione del sottobosco criminale nella Capitale libica. Queste due milizie rappresentano i due gruppi di potere più forti in Tripolitania e dal loro comportamento dipenderà la sopravvivenza del governo al-Serraj nei prossimi mesi.

Seppur appaia irreversibile la crisi del califfato, contemporaneamente all’assedio di Mosul in Iraq e con la stretta di Raqqa in Siria, aver scacciato i jihadisti dalla costa mediterranea non rappresenta la neutralizzazione definitiva del gruppo nella regione del Nord Africa; spostatisi nel Fezzan e verso la Tunisia, dove presumibilmente potrebbe già esser stato allestito un nuovo snodo logistico e centro di comando, sarebbero infatti presenti nel Paese in alcune zone vicino la capitale libica Tripoli ed a Bengasi alcune sacche di resistenza. A rischio, dunque, la stabilità dei paesi limitrofi alla Libia e che vedrebbero rientrare nei propri confini numerosi combattenti precedentemente inseriti nelle file del Califfato.

Contraddistintosi per l’elevata inefficienza e scarsa capacità di governo sul Paese e specificatamente nella Tripolitania, la leadership del premier al-Serraj -già deficitaria di carisma, notorietà ed autorità- e del suo governo sostenuto dalle Nazioni Unite, ed in particolar modo dall’Italia, sembra indebolirsi sempre più. Roma, infatti, ha sapientemente approfittato dell’endemica incapacità governativa e l’implementazione dell’operazione Ippocrate (l’ospedale da campo tirato su a Misurata in men che non si dica, che coinvolge circa 300 soldati con il tricolore sulla mimetica tra medici, paramedici, supporto logistico e forze effettive di protezione) può esser letta come sostegno concreto e segnale politico forte tanto alle milizie dell’area che hanno acquisito un potere esponenziale, quanto al governo di al-Serraj, e soprattutto difesa dei nostri vitali interessi in Libia. Un eventuale governo italiano di scopo concentrato su questioni tutte interne (legge elettorale e questione bancaria su tutte) sarebbe inevitabilmente costretto a gettare uno sguardo al di là del Mediterraneo tenendo sotto controllo l’evoluzione della situazione libica; l’esecutivo Renzi lascia una pesante eredità perché ha fatto una chiara e decisa scelta di campo in favore di al-Serraj. Dunque non solo di Tripoli -come indicato dall’ONU- ma proprio di quel debole primo ministro che ora Roma è costretta a tenere in piedi con vari artifici per non disperdere un importante e certosino lavoro fatto in questi mesi. L’errore da non commettere sarebbe quello di privare la diplomazia italiana di una guida “politica” in questi mesi che saranno particolarmente convulsi per il nostro Paese. Limitarsi a gestire l’ordinaria amministrazione mentre nel mondo avvengono fatti “straordinari” sarebbe lo sbaglio “principe” che condannerebbe Roma ad un ruolo subalterno in una regione dove per ragioni storiche, economiche e strategiche gli italiani sono costretti a giocare invece una partita fondamentale.

Certo, la vittoria contro lo Stato Islamico può essere “l’esecutivo onu” un forte catalizzatore di sostegno internazionale, in particolar modo nel riconoscimento del ruolo di Tripoli nella lotta al fondamentalismo islamico. Tuttavia, con l’uscita di scena di Obama e Renzi -principali sostenitori della soluzione al-Serraj- e con la nuova amministrazione Trump, che tramite l’accordo sistemico con la Russia potrebbe favorire Mosca e i suoi alleati nella regione (Egitto in primis) il generale Haftar ha le carte in regola per divenire l’ago della bilancia del futuro ordine politico-militare libico. La posizione del Generale Flynn, ad esempio, National Security Advisor del prossimo inquilino della Casa Bianca, fautore di un riallineamento della politica estera di Washington nel Medio Oriente ed una maggior focalizzazione nella lotta al terrorismo di matrice islamica, collima con quella russa. L’occidente potrebbe scoprire di aver puntato sul cavallo sbagliato troppo tardi. L’interesse del Cremlino per la Libia è, infatti, crescente: Putin, ricevuto per ben tre volte nel 2016 il generale Haftar accogliendolo con tutti gli onori di un capo di stato, ha già inviato alcune centinaia di consiglieri militari in Cirenaica e concluso importanti accordi di forniture di armi, approfittando dell’arrendevolezza dell’Occidente per affacciarsi nel Nord Africa. Secondo fonti israeliane, scopo della Russia è infatti avere una base militare a Bengasi per uno sbocco sul Mediterraneo simile a quello in Siria.

Il generale Haftar, che pare voglia instaurare una dittatura autocratica ispirata al contiguo Egitto di Al-Sisi grazie all’omogeneità ed alla coesione delle truppe sotto il proprio comando, blocca i lavori e tiene in ostaggio il Parlamento di Tobruk -il legittimo e riconosciuto a livello internazionale. La Libia continua ad essere una polveriera composta da un’infinita miriade di anime tra loro antinomiche e contrapposte, che spaccano trasversalmente il tessuto sociale del Paese e si fronteggiano per le ingenti ricchezze naturali di cui il paese è saturo -petrolio e gas soprattutto; se è pur vero che la ‘liberazione’ di Sirte non può che esser considerata positiva, la sconfitta dello stato islamico -nemico contro cui fare fronte comune- può acuire le già elevate tensioni tra gruppi e tribù del paese che si fronteggiano. La Guerra civile è dietro l’angolo e costituirebbe un grosso errore dell’Occidente quello di considerare ‘compiuta’ una missione che dovrebbe partire solo ora, cioè solo ora che il fondamentalismo pare esser stato sconfitto. L’obiettivo è una Libia forte, stabile, immune agli estremismi ed alleata dell’Occidente; in questo l’Italia ha il dovere di giocare in prima fila.