att_874107– di Filippo Del Monte – Si dice che gli intellettuali di destra siano ormai – vuoi per scelta, vuoi per obbligo – lontani dalla politica. Eppure quando decidono di tornare nell’arena e di colpire lo fanno per bene. Le critiche piovute in questi giorni addosso al centrodestra dopo le ufficializzazioni delle candidature per le amministrative ne sono un esempio. A destare lo stupore di Marcello Veneziani e Pietrangelo Buttafuoco è stata la candidatura di Bertolaso al Campidoglio; una scelta sofferta dettata più dalle fratture interne al centrodestra romano che dalla “forza” dell’ex capo della Protezione Civile. Gli editoriali al veleno usciti in questi giorni a firma di Veneziani e Buttafuoco sono sintomo di un malcontento non troppo celato per una ritrovata centralità di Berlusconi nelle dinamiche politiche interne alla coalizione.

Nonostante alcune differenze di fondo (Buttafuoco ha definito Marchini come il “nuovo Guazzaloca” mentre Veneziani ha tratteggiato la figura di un candidato “identitario”) la morale della favola non cambia. Questo centrodestra della Seconda Repubblica è stantio, legato a doppio filo al berlusconismo declinante e, soprattutto, incapace di riappropriarsi del reame della Politica. Questo malcontento è ben simboleggiato dalle parole di Veneziani che vede Berlusconi incapace di esprimere una posizione politica e di rappresentare il centrodestra. Ed allora ecco Francesca Pascale “ideologo”, Maria Rosaria Rossi “stratega” e Dudù “militante tipo”; una caricatura senza dubbio ma molto vicina alla realtà. Eppure è innegabile che Silvio Berlusconi rappresenti ancora la “sintesi” tra le anime del centrodestra, le candidature di Bertolaso, Parisi e Lettieri sono la personificazione di questo blocco sintetico ma – senza scusanti – privo di anima. Fallita la “rivoluzione liberale”, grande sogno dei moderati, si utilizzano ancora gli stessi schemi scegliendo candidati “messianici” ed estranei o scollati dai territori.

Sembra un centrodestra votato al suicidio assistito questo che continua a credere nei tecnici, nei manager e perfino di potersi ricostituire su basi “civiche” (che sono la negazione dei concetti di Destra e Sinistra). Per paura del confronto si comprimono le idee presentandosi come la brutta copia del “Partito della Nazione”. Quando Buttafuoco chiama il centrodestra “partito dell’inazione” forse ha più di qualche ragione; così come Veneziani che ha bollato il tripartito bolognese Berlusconi – Meloni – Salvini come un “gigantesco caso personale” e “catering politico pro – Renzi”. Quello degli intellettuali non è frondismo ma è voglia di confronto, qualcosa che da troppi anni manca a destra e che ne aveva costituito una ricchezza senza pari. Si vada compatti alle amministrative, si sostengano senza tentennamenti i candidati scelti, piangere sul latte versato è inutile, ma che si apra una discussione sana sul tema.

Un centrodestra spaventato dal confronto interno non potrà mai battere la sinistra a trazione renziana o l’uragano grillino all’esterno. L’unità – di facciata – ritrovata a Bologna rischia di essere il canto del cigno di una storia gloriosa rassegnata a trasformarsi in un insignificante “terzo polo” se non si cambia subito rotta. Sono vent’anni che il centrodestra cambia pelle ma sempre a discapito della politica e sempre con gli stessi volti. Quando sarebbe il momento di ribaltare davvero il tavolo, di invertire gli schemi, il centrodestra resta comodamente seduto crogiolandosi in uno “sconfittismo” che è diventato un suo marchio di fabbrica. Se e quando si vince non è per bravura ma per incapacità degli altri. E allora, parafrasando Marcello Veneziani, più che un “caso personale” il centrodestra unito in Italia sembra diventato un “caso umano”. Il suo spazio politico viene aggredito, i suoi consensi fagocitati, ed il centrodestra pensa che la strada da percorrere sia quella di estraniarsi piuttosto che quella di tornare a combattere sui territori, lì dove si misura la vicinanza tra i cittadini e le Istituzioni (e quei corpi intermedi chiamati “partiti politici”).

Quel rifiuto del politically correct come tratto distintivo del centrodestra non si riesce proprio a trovarlo nelle scelte fatte per le amministrative; si è ragionato esattamente nel modo che ci si aspettava, senza guizzi, senza la volontà di presentare una proposta alternativa. Perché in tempi come questi proprio dell’alternativa c’è bisogno, non dell’usato sicuro, ma questa alternativa non la si troverà certo alla Protezione Civile, ma neanche nei palazzi dell’alta finanza milanese. I dirigenti di un centrodestra che si vanta di essere vicino ai bisogni del popolo non possono aver commesso errori del genere. Soluzioni non ce ne sono, non sono percorribili né la strada “lepenista” né quella di un “grande centro moderato”, salvo svegliarsi di colpo da questo stato semi-comatoso e ripartire da zero. Ma ripartire significa farlo seriamente, eliminando le “mele marce” e gli inetti, ma anche chi ha ancora voglia di comandare ma ormai è incapace di farlo.