– di Filippo Del Monte – Il 2016 è stato l’anno in cui forti picconate sono state inferte ai muri del “pensiero unico”: si è cominciato con il referendum sulla “Brexit”, passando poi per l’elezione alla Casa Bianca di Donald Trump, fino ad arrivare al secco “no” con cui l’elettorato italiano ha bocciato la riforma costituzionale di Renzi. Insomma, nell’anno che abbiamo da poco salutato l’establishment internazionale ha tremato più di una volta di fronte alla rabbia dei popoli; rabbia molto spesso incontrollata, “di pancia” come tutti gli scatti d’ira, ma capace di mettere in crisi i progressisti – cioè coloro che con forza s’attaccano al mantra del mondialismo esasperato – molto più di un qualsiasi costrutto intellettuale. Gettando uno sguardo al Vecchio Continente di certo non si può dire che il popolo si sia riscoperto ad un tratto “conservatore”, ma è indubbio che la cronica crisi economico-sociale (diventata di riflesso culturale e politica) abbia messo in discussione modelli ormai acquisiti al (presunto) “patrimonio comune” come l’europeismo, il liberismo e, financo, la democrazia rappresentativa.

Forse mai come nel 2016 le forze antisistema hanno gettato le basi per costruire attorno ad esse un consenso da raccogliere in questo 2017, o proiettabile per gli anni avvenire, salvo cambiamenti di rotta improvvisi. Proprio la “capitalizzazione” dei successi del 2016 risulta essere l’obiettivo più difficile da raggiungere per le forze populiste sparse in Europa. In Gran Bretagna lo UKIP sembra arrancare dopo la vittoria della “Brexit” a causa di un programma incentrato quasi esclusivamente sull’euroscetticismo; in Germania i consensi ad AfD hanno fatto tremare la Merkel e spinto la destra cristiano-democratica a scoprire la propria vena identitaria; in Austria l’FPO di Hofer è stato sconfitto nelle Presidenziali ma ha comunque guadagnato un’ importante fetta dell’elettorato; Polonia ed Ungheria rappresentano invece le “punte di diamante” dell’ultraconservatorismo – a tratti populista – nell’Europa centro-orientale. In Francia il Front National di Marine Le Pen è in rodaggio per la grande battaglia delle Presidenziali e con molta probabilità, anche qualora Le Pen fosse sconfitta al ballottaggio, il “capitale politico” acquisito dal partito nazionalista transalpino difficilmente evaporerebbe; anzi, proprio il FN rispetto ad altri partiti “populisti” è stato capace di incunearsi in quelle fasce di elettorato – classe operaia e funzionari statali – da sempre considerati “fortini” e delle sinistre e della destra neogollista. I centri studi, i gruppi culturali, la riscoperta della figura dell’intellettuale “organico” e la capacità di Florian Philippot – vero deus ex machina dei successi dei lepenisti – di dare un’immagine nuova del FN, hanno fornito a Marine Le Pen un’arma da brandire contro avversari ormai sfibrati.

Diversa invece la situazione in Italia, dove le istanze “populiste” trovano ampio seguito tra i cittadini ma anche dove nessun partito è riuscito a scavalcare alcuni tradizionali steccati per farne una proposta politica. Affermazione questa che può sembrare superficiale vista la presenza nel nostro Paese di una forza sui generis come il MoVimento 5 Stelle, capace di rivoluzionare in pochi anni la scena politica italiana accelerando la disintegrazione del centrodestra a trazione berlusconiana e la trasformazione in chiave liberale e centrista della sinistra socialdemocratica targata PD. Occorre però fare una distinzione ormai necessaria tra partiti “populisti” e partiti “demagogici” ed oclocratici. Il populismo del XXI Secolo in Europa si è finora configurato con caratteri schiettamente di destra ed ha posto la Nazione, l’identità e la sovranità tra i suoi pilastri ideologico-culturali; il M5S a causa della sue visione anti-nazionale ed anti-identitaria non può essere considerato come una forza politica populista, ma deve essere classificato come una degenerazione del populismo in chiave demagogica, capace di suscitare speranze di cambiamento ma poi di non saperlo effettivamente attuare.

Allo stato attuale gli unici partiti populisti presenti in Italia sono Fratelli d’Italia e Lega Nord. Questi partiti sono entrambi in una fase di transizione: FdI-AN è impegnato nella difficile missione di aprire i propri ranghi ad esperienze diverse, magari provenienti dal mondo liberal-conservatore e dell’imprenditoria, e contemporaneamente preservare quel patrimonio ideale figlio della destra sociale. Sintesi difficile quella che in Fratelli d’Italia dovrebbe prendere forma, quantomeno perché il “campo sovranista” non ha coordinate precise da seguire per il momento ma solo una nebulosa di aspirazioni, molte volte legate alle contingenze e non proiettate sul lungo periodo. Matteo Salvini nella Lega è impegnato nella durissima battaglia di dare al vecchio partito secessionista un’anima “nazionale” – esperimento in parte fallito con i magri risultati elettorali di “Noi con Salvini” – scontrandosi con una base tutt’altro che disposta ad abbandonare i “miti” sui quali la Lega Nord ha foraggiato la propria macchina del consenso fino a poco tempo fa. L’indipendenza della “Padania” non è più un obiettivo per i salviniani, ma ha comunque un valore affettivo non da poco per una base irrequieta e che non ha affatto attenuato la propria ostilità contro “Roma ladrona” ed il “carrozzone” meridionale. La vera sfida per la Lega è proprio quella di sganciarsi dai paradigmi regionalisti per scoprire la Nazione, ancora declinata, è bene ricordarlo, nella forma embrionale del “sovranismo” e non come “comunità di destino”.

Il vero problema per le forze sovraniste-populiste italiane è quello di far emergere il malcontento popolare, ma di non sapervi poi edificare sopra proposte politiche concrete; cioè, si è particolarmente bravi a scovare il problema e molto meno a trovarvi soluzione. Questo perché in Italia, al contrario della Francia, le forze populiste hanno scelto di cavalcare l’onda del momento senza preoccuparsi di costruirvi attorno un’impalcatura ideologico-culturale. Si è scritto prima della riscoperta transalpina dell’intellettuale organico; in Italia è ben lungi dall’essere rivitalizzata questa figura così importante per i partiti del Secolo scorso. Negli USA si è assistito alla rinascita del fermento culturale animato dalle riviste; a farla da padroni sono soprattutto i fogli della sinistra neo-marxista n+1, Dissent, New Inquiry e Jacobin. Tutte esperienze editoriali guidate da laureati al di sotto dei quarant’anni, che hanno costruito il proprio consenso nei college e nelle università e che ad una veste innovativa hanno accompagnato contenuti esplosivi di critica sociale e politica. Abbandonare il “rutto libero” e dare sfogo al “pensiero libero” potrebbe essere un’idea per una destra sovranista italiana che è alla ricerca di sé stessa; infatti la grande sfida del populismo italiano per il 2017 sarà quella di darsi contorni ben precisi, di capire come conquistare il consenso e di conseguenza il successo senza voli pindarici ma solo raccontando sé stessi. Agli elettori infatti non serve una nuova “narrazione” ma serve una nuova verità.