– a cura di Filippo Del Monte – Lo scorso 1 agosto aerei americani hanno compiuto raid aerei su Sirte infliggendo dure perdite in uomini e materiali alle milizie dello Stato Islamico. A comunicarlo è stato direttamente il premier libico Fayez al-Sarraj in conferenza stampa. Sarraj ha inoltre confermato di aver autorizzato gli Stati Uniti ad effettuare bombardamenti sulla città costiera – già città natale di Gheddafi e sua roccaforte – ma che le operazioni non prevedono interventi di terra da parte di truppe straniere. Il nostro Ministero degli Affari Esteri ha diramato un comunicato con il quale ha confermato l’appoggio italiano alle azioni del governo tripolino e definito “fatto positivo” l’intervento aereo statunitense. Già il giorno dopo sono iniziate le schermaglie diplomatiche visto che dalla diplomazia russa sono giunte parole di fuoco e da Mosca hanno annunciato che considereranno i raid americani illegali. E’ possibile che si stia aprendo una nuova fase del conflitto in Libia dove più forte sarà il braccio di ferro diplomatico tra le Potenze mondiali e regionali coinvolte a vario titolo.

Fin dai primi giorni del suo insediamento il governo di Sarraj – la cui formazione è stata un successo indiscusso della diplomazia italiana – si è impegnato nella lotta alle formazioni a vario titolo affiliate allo Stato Islamico presenti nel Paese. Le milizie del Califfato hanno trasformato Sirte nella loro cittadella dopo essere state scacciate da Derna; la città è sotto assedio da mesi e sembra che vi sia una sorta di competizione tra i governi di Tripoli e Bengasi per liberare prima questo importante centro costiero. L’ultima offensiva lanciata dalle forze del generale Haftar, uomo forte dell’esecutivo cirenaico, si è infranta contro la resistenza degli islamisti mentre lo slancio dei tripolini è proseguito ed ora sono i soldati di Sarraj ad essere in “vantaggio” in questa strana corsa.

Le difficoltà riscontrate nei combattimenti urbani hanno spinto l’alto comando libico a richiedere l’intervento aereo di Washington per snidare i circa 1000 (secondo le fonti dell’intelligence questi sono i numeri) combattenti dell’ISIS presenti a Sirte. Dopo un primo momento di indecisione Obama – sotto la pressione del segretario alla Difesa Ash Carter – ha autorizzato l’uso della forza contro i miliziani del califfo presenti a Sirte con un’operazione che dovrebbe durare 30 giorni. Le proteste arrivate dalla Russia sembrano più che altro legate ad una generica opera di sabotaggio politico dell’iniziativa statunitense che non a reali motivazioni giuridiche, anche perché se un governo riconosciuto autorizza azioni militari straniere sul proprio territorio non c’è nulla di illegale (Assad autorizzò i bombardamenti russi in Siria ad esempio). Presunzioni di illegalità sono arrivate anche dal governo di Bengasi ma dall’ONU si sono affrettati a dichiarare che i raid americani rientrano perfettamente nel quadro previsto dalla risoluzione 2259 del 2015.

La presenza dei bombardieri a stelle e strisce sui cieli libici potrebbe impensierire non poco gli strateghi del Cairo che nei mesi precedenti erano riusciti a mettere il cappello sulle scelte politiche del governo di Bengasi; finora al-Sisi ha appoggiato incondizionatamente i gruppi politici della Cirenaica credendoli più inclini al compromesso e soprattutto più solidi rispetto al magmatico scenario tripolino. Quando l’Italia ha tirato fuori dal suo mazzo Sarraj, i ruoli si sono invertiti e quello di Bengasi si è trasformato in un esecutivo isolato e riottoso a qualunque intesa con la controparte. Per il Cairo si aprono ora due strade: o svincolarsi lentamente ma senza esitazioni da Bengasi o rafforzare il sostegno alla cerchia militare di Haftar nel tentativo di rafforzarne la leadership dinanzi alla comunità internazionale facendone una sorta di “contraltare” a Sarraj.

Nella stessa scomoda situazione dell’Egitto si trovano francesi ed inglesi. Parigi e Londra hanno seguito una strategia di contrapposizione frontale all’azione diplomatica e politica di Roma in questi mesi, tentando di ostacolare la delicata costruzione di quella ragnatela di contatti a cui la Farnesina stava lavorando fin dall’inizio delle ostilità in Libia. Per spingere l’Italia a desistere i franco-britannici hanno preferito appoggiare le rivendicazioni di Bengasi indicando Haftar come un possibile interlocutore per le Nazioni Unite e per quegli Stati con interessi più o meno diretti nella nostra ex colonia. La “preferenza” per Bengasi di queste due Potenze è storicamente giustificata, infatti entrambe hanno sempre avuto maggiori interessi in Cirenaica e nel Fezzan piuttosto che in Tripolitania, considerata una regione sotto influenza italiana. Dopo la sconfitta di Gheddafi la nostra capacità di penetrazione politica in Tripolitania era venuta meno e sia la Francia che la Gran Bretagna hanno tentato di approfittarne con scarsi risultati. Dopo la formazione dell’esecutivo tripolino di Sarraj, la situazione è tornata in equilibrio, anzi, Roma ha un discreto vantaggio nella trattazione degli affari libici rispetto ai due alleati-rivali. Nella conferenza stampa del 1 Luglio Sarraj ha dichiarato anche che nessun intervento di forze straniere sarà tollerato senza autorizzazione delle autorità libiche; un chiaro monito al governo di Parigi che a metà luglio era stato costretto ad ammettere, con grande imbarazzo di Eliseo e vertici militari, la presenza di forze speciali transalpine in Libia. Queste unità operano a stretto contatto con le forze di Haftar e, se non contro, comunque in competizione con quelle del governo di Tripoli.

La fase di transizione nella politica estera britannica dopo il referendum sulla Brexit si ripercuote anche sulla condotta britannica in Libia. Nella sua visita a Roma della scorsa settimana il nuovo primo ministro Theresa May ha sottolineato l’importanza della collaborazione italo-britannica sui dossier della lotta al terrorismo e del Migrant Compact, due questioni che influenzeranno pesantemente la diplomazia del Foreign Office nei prossimi mesi. Continuare ad appoggiare Bengasi in tandem con i francesi non è la via più breve per stabilizzare la Libia e chiudere i rubinetti ai trafficanti d’esseri umani nel Mediterraneo. Per evitare uno stallo o una pesante sconfitta diplomatica come quella subita da Parigi in Libia, a Londra dovranno attuare – almeno fino a quando gli equilibri post-Brexit non si saranno assestati – una ritirata strategica.

L’ultimo punto di questa analisi non può che riguardare l’Italia. Paolo Gentiloni ha negato che sia finora arrivata una richiesta dagli USA per utilizzare le basi di Aviano e Sigonella ma ha anche dichiarato che qualora questa ipotesi dovesse essere presa in considerazione sarebbe giustamente consultato il Parlamento. Nel question time alla Camera il ministro della Difesa Roberta Pinotti ha detto che “il Governo è pronto a considerare positivamente un eventuale utilizzo delle basi e degli spazi aerei nazionali a supporto dell’operazione, dovesse tale evenienza essere ritenuta funzionale ad una più efficace e rapida conclusione dell’azione in corso”; dunque a Palazzo Chigi sarebbero propensi ad accettare eventuali richieste da Washington. Per i generali USA sarebbe sicuramente più vantaggioso far decollare i bombardieri dal suolo italiano e la realpolitik consiglierebbe al nostro esecutivo di accettare. Rifiutare l’eventuale richiesta americana equivarrebbe a rimangiarsi mesi di lavoro preparatorio dei nostri diplomatici e tutta la strategia finora adottata. I progetti italiani di stabilizzazione e ristrutturazione del sistema politico libico sono stati condivisi anche dalla Casa Bianca e dal Dipartimento di Stato; affiancarsi agli americani in questo caso porterebbe acqua al nostro mulino. Rispondere affermativamente ad eventuali richieste di Washington significherebbe “imporre” al Paese l’intervento – anche solo aereo – delle forze italiane perché concedere la base di Sigonella e poi non partecipare attivamente ai raid equivarrebbe a “delegare” nuovamente agli Stati Uniti la sicurezza di una regione in cui abbiamo interessi diretti.

Quando la prima bomba statunitense è caduta su Sirte una nuova fase del conflitto libico si è aperta e su questo non ci può essere dubbio. Tutti i tasselli di un complicato lavoro fatto di trattative estenuanti stanno prendendo la forma di un mosaico; starà ora alla Farnesina, a Palazzo Chigi ed al Parlamento gestire questa difficile operazione che potrebbe ridare all’Italia la stessa influenza in Libia detenuta prima del dilettantesco intervento del 2011, a patto di sapersi e volersi assumere responsabilità che potrebbero essere solo nostre per ragioni storiche, geografiche e strategiche.