referendum -A cura di Francesco Severa – Se ci trovassimo per caso a scorrere gli articoli della nostra Costituzione – un passatempo non proprio invitante, ma a cui certamente molti avranno provato a dedicarsi in questi tempi di referendum – sarebbe difficile non rimanere colpiti dalla inusitata lunghezza dell’articolo 117, in netto contrasto con la secchezza e la semplicità intuitiva delle altre disposizioni. I lunghi elenchi che disegnano il riparto di competenze legislative tra lo Stato e le venti Regioni furono introdotti dalla riforma costituzionale del 2001, che tentò di rifondare il sistema regionalistico del nostro paese così come disegnato dall’Assemblea Costituente. Fu Giuliano Amato a dire che la Costituzione del quarantotto configurava le Regioni come “enti senza volto”, cioè come enti privi di funzioni chiaramente individuabili. Il tentativo allora portato avanti con la legge costituzionale 3 del 2001 fu dunque quello di superare le criticità della Carta del quarantotto ridisegnando in maniera più specifica la ripartizione delle competenze legislative e improntandola ad un modello più propriamente federale, che prevede per lo Stato una riserva di competenze ben enumerate e per le Regioni il riconoscimento di una competenza residuale, cioè su tutte le materie non direttamente spettanti allo Stato. A queste due tipologie di competenze però si decise di affiancare una terza categoria (comma 3 dell’art. 117 Cost.), che è quella della competenza concorrente. Un elenco di materie, anche qui abbastanza lungo, per le quali lo Stato è chiamato ad intervenire per la fissazione dei principi fondamentali, mentre le Regioni per l’attuazione dei principi predetti, mediante l’adozione delle necessarie norme di dettaglio. Questo nuovo modello di ripartizione delle competenze, accompagnato dal definitivo superamento del ruolo tutorio dello Stato nei confronti delle Regioni (in virtù del quale prima del 2001 non vi era atto regionale che non fosse sottoposto al controllo statale), ha dato vita a quello che Olivetti ha definito, con termine che ha avuto molta fortuna tra i giuristi ma che probabilmente farà rabbrividire quanti si richiamano ad una concezione più centralista della nazione, uno “Stato policentrico delle autonomie”. A sancire solennemente tale svolta c’è oggi il primo comma dell’articolo 114 della Costituzione, che afferma che “la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”, ponendo ognuno di questi organi, fortunatamente solo a livello simbolico, sullo stesso identico piano. Dopo quindici anni dalla riforma, si può ben dire che questo modello ha presentato una pluralità di criticità non facilmente superabili. Tali criticità hanno sia cause endogene, legate alla coerenza e congruenza della nuova legislazione costituzionale, sia cause esogene, derivanti dall’attuazione politica delle nuove norme. Iniziando da queste ultime, la riforma del 2001, approvata da una maggioranza di centro-sinistra non poco interessata a dimostrare la sua sensibilità verso le spinte federaliste che la Lega Nord stava in quel periodo cavalcando, fu però attuata, nella legislatura successiva, da una concorrente maggioranza di centro-destra, che non troppo velatamente tentò, nelle leggi attuative realizzate tra il 2003 e il 2009, di smorzare alcuni aspetti della riforma che non condivideva. Dal punto di vista delle cause endogene, soprattutto il nuovo modello delle competenze concorrenti presentava due caratteri che ne hanno reso difficile l’applicazione: come disse Antonio D’Atena, questo era un modello “indeterminato e rigido al tempo stesso”. Indeterminato perché fissava la ripartizione dei compiti tra Stato e Regioni su un discrimine non certo intuitivo e sicuramente incerto: non è semplice capire dove finisce il principio e dove comincia il dettaglio; rigido perché la Costituzione tentava di fissare a priori gli argini entro cui far sviluppar la concorrenza di competenze, senza pensare che praticamente non esiste nessuna disciplina che possa fondamentalmente ricondursi ad una sola specifica materia tra quelle elencate nel 117. Queste problematiche, che possono sembrare assai astratte, hanno però segnato profondamente la vita istituzionale di questo paese, caratterizzata da anni di continue crisi istituzionali e ostacoli insormontabili contro qualsiasi tentativo riformatore in questa nostra Italia.

L’ultimo lampante esempio lo abbiamo avuto con la sentenza della Corte Costituzionale 251 del 2016, depositata lo scorso 25 novembre, che ha cancellato due anni e mezzo di sforzi governativi per l’attuazione della riforma della Pubblica Amministrazione che prende il nome dal ministro Madia. Ora la questione non è tanto il merito di questa singola riforma, che può essere condivisibile o meno, né le possibili conseguenze politiche che possono derivare per il Governo Renzi dalla bocciatura della Consulta. Sta di fatto che, al contrario, leggere questa sentenza non può che farci comprendere come oggi sia fondamentale superare il sistema del Titolo V, così come introdotto dalla modifica del 2001. La questione è semplice: la riforma Madia (l. 124 del 2015) è una legge delega, cioè una legge con la quale il Parlamento delega al Governo l’emanazione di decreti – chiamati decreti delegati – con i quali disciplinare una determinata materia nel rispetto di specifici principi e criteri direttivi e soprattutto per un tempo limitato. Le materie toccate però dalla riforma in questione sfiorano anche competenze che non sono esclusive dello Stato. Questo per esempio in tema di dirigenza pubblica ovvero di partecipate. E’ per questo motivo che la legge prevedeva che l’approvazione dei decreti attuativi, spettante al Governo, dovesse essere fatta solo previo parere della Conferenza Stato-Regioni e del Consiglio di Stato. La Regione Veneto ha deciso di sollevare un ricorso in via principale contro la legge davanti alla Corte Costituzionale, asserendo proprio come molte disposizioni andassero a legiferare direttamente in materie che secondo le disposizioni dell’art. 117 spettano al contrario alla potestà regionale. Nella sentenza la Corte, entrando nel merito della questione, offre una lucidissima analisi del rapporto che dovrebbe intercorrere tra lo Stato e le Regioni. Al punto 3 del “Considerato in diritto”, la Corte afferma che nell’emanare queste disposizioni il legislatore statale aveva un obiettivo chiaro: quello “di incidere sulla «riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche»”, spaziando su una pluralità di materie – cittadinanza digitale, dirigenza pubblica, partecipazioni azionarie pubbliche, fino ai servizi di trasporto pubblico – che però “influiscono su molteplici sfere di competenza legislativa anche regionale”. In questi casi in cui si tenta di “disciplinare, in maniera unitaria, fenomeni sociali complessi, rispetto ai quali si delinea una fitta trama di relazioni, nella quale ben difficilmente sarà possibile isolare un singolo interesse”, la Corte afferma che va innanzitutto verificato se esista una materia di competenza statale che prevalga sulle altre e dunque permetta di ricondurre ad essa l’intero piano riformatore della legge. Ove ciò sia difficile o addirittura impossibile, il principio che viene in gioco è quello di leale collaborazione: “il legislatore statale deve predisporre adeguati strumenti di coinvolgimento delle Regioni, a difesa delle loro competenze. L’obiettivo è contemperare le ragioni dell’esercizio unitario delle stesse con la garanzia delle funzioni costituzionalmente attribuite alle autonomie”. Questo strumento di coinvolgimento era stato individuato dal legislatore della legge 124 del 2015 nel previo parere della Conferenza Stato-Regioni. Tale strumento però è ritenuto dalla Corte insufficiente a perseguire il principio della leale collaborazione, che non può, al contrario, non passare attraverso l’intesa, cioè un iter in cui assumano “il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale”. Sostanzialmente la Corte dice che i decreti attuativi non possono ricevere semplicemente il parere della Conferenza, ma devono essere discussi, costruiti e condivisi insieme alla totalità delle Regioni italiane. E’ nella conferenza Stato-Regioni che la Corte individua “una delle sedi più qualificate per l’elaborazione di regole destinate ad integrare il parametro della leale collaborazione”. Dunque la Corte ritiene incostituzionali le norme delle legge delega in quanto prevede che i decreti legislativi attuativi siano adottati previa acquisizione del parere reso in sede di Conferenza unificata, anziché previa “intesa” in sede di Conferenza Stato-Regioni. Questa posizione della Corte non fa altro che portare alla luce l’assoluta irrazionalità di questo nostro sistema. Un sistema in cui il Governo, espressione di una specifica maggioranza parlamentare e vincolato alla realizzazione di uno specifico programma che giustifica il rapporto di fiducia con le due Camere, è sottoposto al continuo rischio di veder cancellate le proprie scelte riformatrici in nome di un principio di competenza legislativa diversificata, basato su competenze indeterminate e dunque facilmente oltrepassabili. Un sistema costituzionale in cui non è rintracciabile nemmeno un principio di prevalenza e supremazia statale, necessario quando si affrontano materie che, come queste qui esemplificate, riguardano una pluralità inestricabile di competenze. La cosa più interessante però di questa sentenza 251 del 2016 è il fatto che la Corte non solo comprende la dimensione del problema, ma indica espressamente la via per uscirne. Non è da sottovalutare infatti il richiamo, sfuggito alla maggior parte dei commentatori, che, ad una settimana dal referendum, la Corte Costituzionale nella motivazione di questa sentenza fa ad una sua precedente, la 278 del 2010 in particolare. Nel richiamarla la Corte afferma di essere costretta a imporre l’utilizzo dello strumento dell’intesa in quanto sussiste nel paese una “perdurante assenza di una trasformazione delle istituzioni parlamentari e, più in generale, dei procedimenti legislativi”, come raccomandato dalle stessa legge di revisione costituzionale 3 del 2001 al suo articolo 11. Insomma la Consulta ricorda, fuor di metafora, che l’incostituzionalità di questa legge non avrebbe avuto motivo di essere se il legislatore avesse revisionato la Costituzione prevedendo una camera specifica di rappresentanza delle autonomie, la quale avrebbe assicurato la partecipazione delle Regioni all’approvazione di una legge che tocca anche le loro competenze costituzionali. Non fa altro che ricordarci dunque quanto sia necessario in un sistema così congegnato l’esistenza di un luogo di compensazione tra le competenze statali e regionali; luogo che non potrebbe trovare migliore espressione se non in una Camera delle autonomie.

La questione da porci allora sarebbe questa: se la riforma costituzionale che ci apprestiamo a votare il 4 dicembre fosse già entrata in funzione la legge Madia sarebbe risultata incostituzionale? Da quello che ci dice la Corte, probabilmente no! Fuori da ogni valutazione politica, la riforma costituzionale oggi in discussione affronta le criticità proprie dell’attuale sistema di riparto delle competenze tra Stato e Regioni. Lo fa eliminando la problematica delle competenze concorrenti; introducendo un Senato delle autonomie, capace di rappresentare un organismo di compensazione per le Regioni ed in generale per gli enti locali, che sarà protagonista in forma attenuata dell’iter legis; introduce il principio di supremazia statale, stabilendo i casi in cui, attraverso una legge con iter rafforzato, il parlamento potrà legiferare in materie di competenza regionale. Siamo veramente sicuri che questo tentativo vada bocciato? La questione è semplice: il giudizio negativo che tutti diamo al governo sinistroide di Matteo Renzi giustifica un rifiuto assoluto di una riforma costituzionale che affronta alcuni problemi storici di questo paese? A noi sta valutare se sia giusto rinnegare la vittoria culturale del centro-destra italiano, che ha convinto perfino la sinistra che la nostra non è la Costituzione più bella del mondo.