20162665131473 -di Luca Proietti Scorsoni- Carneficina da macello halal e fiato soffocato dal fumo acre misto con il pianto. Una mattanza su grande scala utile alla cinica causa di molti. L’Isis, a marchio sunnita, che impartisce una lezione di sangue alla controparte sciita, i talebani che presi da un moto di compassione (proprio loro!) denunciano le barbarie di Kabul e i complessati di casa nostra subito ad alzare il dito per evidenziare l’ipocrisia occidentale che rende invisibili gli innocenti afgani. In quest’ultimo caso per giunta non è nemmeno opportuno parlare di perbenismo – come se poi scrivere #jesuiskabul o #prayforecc potesse risolvere qualcosa – ma del nostro fisiologico approccio relazionale. Voglio dire: alzi la mano chi rimane impassibile alla morte di un proprio caro e si dispera per il funerale di uno sconosciuto. Non molti, vero? Non può esserci la stessa partecipazione emotiva avuta per Nizza o Parigi perché così impone la nostra conformazione neurobiologica ma ciò non cancella comunque la “pietas” annidata nei nostri cuori. Ed il tutto senza sottolineare il fatto che i primi ad indignarsi di questo strabismo geopolitico sono gli stessi che negli anni – almeno in Italia – si sono prodigati affinché si celassero persone, idee e libri poiché non propriamente collimanti con il “loro” politically correct. Inoltre, tanto per tornare al nocciolo della questione, il conflitto intestino all’Islam, la macro scissione avente come genesi una differente lettura del ramo ereditario del Profeta, dovrebbe farci riflettere su come sia preponderante l’elemento teologico in questa guerra globale, fatte salve ovviamente le varie responsabilità statuali. Una religione che funge “solo” da pretesto è pur sempre una religione che si presta a motivare concettualmente degli eccidi. Se davvero il fondamentalismo risulta essere soltanto una piccola porzione del mondo islamico la restante maggioranza dovrebbe avere gioco facile nel spazzare via rigurgiti di odio. Purtroppo l’Islam moderato emerge nelle dotte analisi pubblicate dalla cosiddetta informazione libera – libera ovviamente di uniformarsi al pensiero dominante – oppure negli accorati appelli firmati dai soliti intellò sensibili alle progressive sorti della civiltà rigorosamente non occidentale. Poi però, una volta distolto lo sguardo dallo smartphone, ecco che questo moderatismo di matrice islamica si dissolve, non perviene presso gli anfratti sociali dei nostri spazi urbani, non risponde agli inviti di scendere in piazza o di monitorare in maniera rigorosa cosa accade nei propri ambienti: leggere alla voce moschee o centri culturali islamici. Pochi giorni fa, in un suo post, il filosofo liberale Corrado Ocone si chiedeva: “Dicesi “moderato” l’Islam che non uccide ma si limita a coprire le donne, incarcerare adultere e omosessuali, sostenere regimi teocratici?” Siamo giunti ad un punto per il quale non possiamo più tollerare le zone d’ombra o aree grigie che dir si voglia. In pratica quegli spazi di pensiero e comportamentali dettati dall’ambiguità semantica e sorretti da troppi giustificazionismi storici. La condanna a posteriori delle stragi diviene un riflesso legato alla prasseologia diplomatica e formale. Ciò di cui vi è necessità invece è quello di mettere in campo tutti gli sforzi dei “moderati” per prevenire nuovi lutti e smantellare le devianze legate ad una ortoprassi coranica foriera in gran parte dell’attuale entropia religiosa ed esistenziale.