referendum-di Daniele Sabatini e David Crescenzi- È una strana combinazione del destino quella che ci ha portato, di recente, a ritrovare un articolo di dieci anni fa a firma del compianto Prof. Arturo Colombo che, all’approssimarsi del referendum sul progetto di revisione costituzionale varato nel 2005 dall’allora maggioranza di centrodestra, suggeriva di prendere posizione su quella riforma partendo da una riflessione di Benedetto Croce. Croce il quale, in Assemblea Costituente, aveva inteso richiamare l’attenzione sulla responsabilità che gravava su chi, mettendo mano al patto costituzionale tra governanti e governati, veniva chiamato ad assumere decisioni fondamentali per la vita e il futuro del proprio Paese. Ebbene, per via del meccanismo dell’approvazione referendaria, tale responsabilità incombe adesso anche su tutti noi che, quando saremo chiamati a pronunciarci con un Sì o con un No, dovremo necessariamente svestire i panni delle tifoserie per indossare quelli dei cittadini consapevoli.

Del resto, diciamocelo, in questi anni abbiamo dimenticato che cosa sia, nel profondo, una Costituzione: il patto che precede e sovrasta ogni programma politico di parte, l’insieme delle regole del gioco condivise, in quanto in essa riposano quelli che Colombo chiamava i tre “valori-chiave” della convivenza civile, ovvero quelli di libertà, solidarietà e stabilità. Valori, questi, che ogni maggioranza contingente è chiamata ad assicurare a tutti i cittadini, seppur secondo le sensibilità di chi di volta in volta vince le elezioni, attraverso la realizzazione del proprio programma elettorale. Eppure, a partire dalla riforma del Titolo V del 2001, voluta dall’allora maggioranza di centrosinistra, si è innescata una spirale perversa che ha condotto a dimenticare che il patto costituzionale doveva essere raggiunto non dalla maggioranza di turno, ma con la più ampia condivisione tra le forze parlamentari e del Paese. Già, perché sbagliano coloro i quali sposano una visione mitologica della Costituzione, ritenendo che essa sarebbe immutabile e perfetta nonostante gli stessi Padri costituenti avessero previsto una procedura ad hoc per aggiornarla (quella dell’art. 138), ma, al contempo, sbagliano anche coloro i quali pensano di poter fare della “grande riforma costituzionale” un mero punto del proprio programma politico: di fatti, come insegna la vicenda del referendum del 2006 sul progetto di riforma del centrodestra, non sempre gli elettori sono inclini a confermare consimili cambiamenti di parte, senza contare che, in ogni caso, si tratta di riforme destinate a lasciare un posto effimero nella storia a coloro che le hanno proposte visto che, quelli che governeranno in seguito, si sentiranno poi in diritto di imporre la “loro” Costituzione. Si badi, questa “critica di metodo” non vuole risolversi nello sposare un’altra mitologia sulle riforme costituzionali, ma vuole semmai essere un richiamo pragmatico alla necessità di porre le basi affinché dette riforme durino nel tempo, abbiano modo di consolidarsi e perferzionarsi, evitando che ogni 10-15 anni si debba ricominciare da capo con l’ennessima “grande riforma”. In tal senso, quindi, va colto in modo positivo il recente messaggio del Presidente Berlusconi che ha auspicato per il futuro di non commenttere più lo sbaglio degli ultimi 15 anni: giustappunto, quello delle riforme costituzionali non condivise.

Inoltre, proprio le vicende degli ultimi anni ci hanno dimostrato che le riforme a colpi di maggioranza, quando intervenute sul substrato delle regole del gioco che dovrebbero essere condivise (eminentemente quelle costituzionali e quelle elettorali), hanno miseramente fallito rispetto al tentativo di efficientare la nostra forma di governo parlamentare con un grado maggiore di “stabilità”: sul fronte delle riforme costituzionali, è stato questo il caso della riforma del Titolo V del 2001, che non ha rafforzato, né reso maggiormente responsabili le Autonomie regionali, né tanto meno semplificato i rapporti tra centro e periferia ma, anzi, ha prodotto un abnorme crescita del contenzioso davanti alla Corte costituzionale per cercare di capire, di volta in volta, chi facesse cosa tra Stato e Regioni; invece, sul fronte delle riforme elettorali, pensiamo alla legge Calderoli del 2005 (il c.d. Porcellum) la quale, anche prima di essere bocciata dalla Corte costituzionale, non è risucita a regalarci la tanto agognata “governabilità” (bastano a dimostrarlo le modalità con cui, proprio in Parlamento, l’ultimo Governo Berlusconi è stato esautorato da quello Monti). Pertanto, anche gli alchimisti del novello Italicum ne siano consapevoli: premi di maggioranza e stregonerie giuridiche non possono curare i mali (tutti politici) dei partiti. Allo stesso modo, neppure ci si illuda che le Istituzioni democratiche, centrali e periferiche, saranno in grado di perseguire con efficienza i loro obiettivi se, a monte, le forze politiche non avranno saputo ritrovare una effettiva convergenza ideale e programmatica che le renda coese e compatte al loro interno.

Sennonché, a noi pare che le premesse che hanno accompagnato le recenti riforme perdurino tuttora, tanto da farci ragionevolmente dubitare che l’odierno progetto di revisione costituzionale targato Boschi-Renzi possa davvero segnare un cambiamento: infatti, esso non agisce sulle vere cause della “ingovernabilità”, quelle politiche, ma, ancora una volta, dà la colpa dei fallimenti dei partiti alle regole condivise.

Nel dettaglio, stando al quesito che troveremo sulla scheda il 4 dicembre, quest’ultima riforma intenderebbe raggiungere tre obiettivi: superare il “bicameralismo paritario”, da sempre sinonimo di inefficienza; abbattere i costi della politica e di funzionamento delle Istituzioni, ad es. riducendo il numero dei parlamentari e sopprimendo il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL); razionalizzare i rapporti tra centro e periferia riscrivendo il Titolo V, attraverso una riallocazione delle funzioni tra Stato e Regioni, come pure tramite la soppressione delle Province. Ora, come spesso accade in questi casi, dietro le suggestioni di sapore francamente populista del quesito si nascondono in realtà interventi di revisione assai complessi che (se ne sarà reso conto chi ha provato a leggere il testo del progetto) tutto sono meno che chiari e di facile comprensione. Anzi, a guardarsi intorno, è palpabile nel Paese la ricerca dell’esperto che ci illumini, al quale affidarci per sapere se il quesito sia sincero o meno. Tuttavia, il convincimento che, quali semplici cittadini, non avremmo modo di comprendere sarebbe il più grave torto che potremmo fare non solo all’etica della responsabilità cui facevamo cenno all’inizio di questo contributo (quella per cui chi è chiamato a riscrivere la Costituzione deve farlo con lungimiranza) ma anche ai nostri interessi concreti: infatti, questa riforma cambierà anche le nostre vite di utenti e contribuenti nella misura in cui inciderà sui meccanismi che portano i pubblici poteri (centrali e periferici) ad erogare i di loro servizi e a presentarci poi il conto degli stessi in sede fiscale. Sennonché, a nostro avviso, questo sbandierato cambiamento sarà in peggio e, per evidenziarlo, prenderemo ora in considerazione i tre obiettivi della riforma.

Ciò posto, volendo principiare dal tema del “bicameralismo paritario”, è noto a tutti che esso costituisca una particolarità del nostro (e di pochi altri ordinamenti) visto che, sul piano dell’analisi comparata, quasi sempre i due Rami del Parlamento hanno funzioni diverse e sono esponenziali di istanze differenti: la Camera rappresenta tutti i cittadini del Paese e, oltre ad essere l’unica Assemblea che vota la fiducia al Governo, vara leggi di interesse nazionale; il Senato tende a rappresentare le Autonomie territoriali e legifera in ambiti di interesse di enti regionali e locali; peraltro, esistono sempre anche delle funzioni condivise dai due Rami (a es., certe materie come le revisioni costituzionali devono essere approvate con leggi bicamerali). Trattasi di un’impostazione che assicura la specializzazione delle due Camere e, teoricamente, snellisce il procedimento legislativo. Peraltro, la riforma Renzi-Boschi assicura davvero il raggiungimento di tali risultati? Diciamo che prima di rispondere a questa domanda andrebbe sgombrato il campo da un’illusione prospettica fortemente alimentata in questi giorni dai fautori del Sì: quella che la specializzazione renderebbe più rapido il procedimento legislativo. Come sa bene chi segue i lavori parlamentari, i tempi spesso biblici per il varo di una legge dipendono solo in minima parte dalla necessità che i progetti debbano essere approvati in identico testo dalle due Camere: infatti, prima che il testo venga licenziato da uno dei due Rami il tempo maggiore è quello destinato ai negoziati politici sul progetto, dapprima nelle Comissioni e poi nell’Aula (sul sito del Senato sono riportate le statistiche sui tempi medi di approvazione dei progetti di legge nel corso della presente Legislatura che per i ddl di iniziativa parlamentare arrivano fino a 208 giorni, quando presentati al Senato, e a 238, quando presentati alla Camera). Inoltre, vanno considerati altri due aspetti: in primis, che non appena il testo perviene alla seconda Camera, se questa lo modifica, a tornare indietro alla prima Assemblea (secondo il meccanismo delle c.d. “navette”) è solo la parte modificata (peraltro, negli ultimi anni il fenomeno delle navette si è già fortemente ridotto); in secundis, che se l’iniziativa legislativa proviene dal Governo (non dimentichiamo che il principale problema ostentato dai fautori della riforma è quello di assicurare la rapida approvazione dei ddl connessi al programma di Governo) i tempi di approvazione si abbreviano incredibilmente già ora (ad es., quelli presentati alla Camera richiedono mediamente 81 giorni e, in caso di conversione di decreti legge, sempre alla Camera, bastano mediamente 12 giorni). Tutto questo per non parlare poi di una serie di leggi di sistema che, in modo invero fin troppo affrettato, sono state licenziate dalle due Camere in neanche 20 giorni (come la famigerata riforma Fornero). Quindi, a ben vedere, ancor una volta ne esce verificata la tesi che qui si prospetta: se c’è volontà politica non è il bicameralismo paritario l’ostacolo vero all’approvazione di una legge. Con questo, chiaramente, non vogliamo delegittimare in assoluto l’idea in sé di andare oltre il bicameralismo perfetto, ma solo avvisare che non tutte le modalità per raggiungere questo obiettivo sono sempre desiderabili: il cambiare purché si cambi non è una strategia di rinnovamento, ove lo si faccia indipendentemente da logiche razionali, ma solo il viatico per creare maggiore confusione.
Ma c’è di più. Infatti, se almeno con la riforma del 2005, come regola generale, si decideva di destinare la potestà legislativa spettante allo Stato negli ambiti di cui all’art. 117 c. 3 Cost. (i principi delle materie di legislazione concorrente tra Stato e Regioni) al solo Senato e la potestà legislativa spettante allo Stato negli ambiti di cui all’art. 117 c. 2 Cost. (le materie di competenza legislativa esclusiva dello Stato) alla sola Camera, realizzando così un’effettiva specializzazione tra i due Rami del Parlamento, per contro, con la riforma Boschi-Renzi ogni potestà legislativa spettante allo Stato sarà esercitata dalla Camera (salve alcune materie dove sarà necessaria, così come ora, una legge bicamerale tramite l’approvazione anche da parte del Senato). Tra l’altro, mentre con la riforma del 2005 si riduceva, oltre al numero dei senatori, anche quello dei deputati (che passavano da 630 a 518), con la Boschi-Renzi i deputati rimarranno sempre 630 (con la conseguenza che non si vede come si potrà avere uno snellimento degli attuali tempi di negoziazione delle leggi proprio in quella tra le due Camere che deciderà su ogni ambito di competenza legislativa statale). Comunque, non finisce qui. Di fatti, da un lato, va evidenziato che nelle materie di legislazione esclusiva della sola Camera, il Senato potrà deliberare proposte di modifica che la Camera dovrà accogliere o respingere pronunciandosi con una nuova deliberazione (questo, solo per dire che non necessariamente verrà risparmiato il tempo che prima occorreva per la doppia approvazione da parte di ambo i Rami del Parlamento). Dall’altro lato, poi, va precisato che un problema ben più grave affliggerà le leggi bicamerali (che interverranno su materie assai delicate come l’autorizzazione alla ratifica dei Trattati relativi all’appartenenza dell’Italia all’UE o la partecipazione delle Regioni alla formazione e all’attuazione del diritto europeo) perchè, siccome il Senato non verrà rinnovato per l’intero in concomitanza con la Camera (come ora) ma per quote in concomitanza con le elezioni dei Consigli regionali delle singole Regioni, inevitabilmente, potranno aversi maggioranze diverse tra i due Rami del Parlamento con la conseguenza di ostacolare l’approvazione delle leggi bicamerali. Da ultimo, non va dimenticato che, ove dovessero sorgere “questioni di competenza” tra le due Camere (a dimostrazione che neppure gli artefici della riforma sanno se saranno sempre chiare le attribuzioni dei due Rami del Parlamento), dette questioni dovranno essere risolte “d’intesa” tra i Presidenti delle due Camere: ma se i due Presidenti non dovessero raggiungere tale intesa (specie in caso di Camere con maggioranze difformi)? Inevitabilmente, si dovrà adire la Corte costituzionale in sede di conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato. In altre parole, come se non bastassero già i contenziosi tra Stato e Regioni per definire le rispettive attribuzioni legislative, ora avremo anche quelli interni al Parlamento dello Stato.
Insomma, sembra ce ne sia abbastanza per affermare che questo bicameralismo alambiccato, lungi dall’onorare le sue promesse, finirà semmai con l’indebolire le istanze della stabilità e dell’efficientamento della nostra forma di governo parlamentare.
Esistono poi altri punti potenzialmente critici che, però, riguardano soprattutto le sensibilità di ciascuno: ad es., si può obiettare che rispetto alle riforma del 2005, in cui i senatori venivano eletti a suffraggio universale, il meccanismo dell’elezione di secondo grado da parte dei Consigli regionali dei senatori sia lesivo del principio democratico. In realtà, con onestà, bisognerebbe riconoscere che di questa possibilità, in un primo tempo, si era parlato anche in Assemblea costituente quantunque su premesse diverse: infatti, i Padri avevano inizialmente ventilato che solo un terzo dei senatori fosse eletto dai Consigli regionali e, in ogni caso, essi presupponevano che il Senato avrebbe avuto le stesse funzioni della Camera (secondo i canoni del bicameralismo paritario) di modo da poter effettivamente attribuire un vero potere di condizionamento sul Parlamento alle Regioni. Tuttavia, in questa sede preme osservare che, se proprio la Boschi-Renzi voleva adottare questa logica, almeno, per rendere la Camera alta davvero rappresentativa delle istanze delle Autonomie territoriali avrebbe potuto adottare accorgimenti come quelli previsti in Germania, dove i membri del Bundesrat (il Senato federale) sono obbligati ad esprimere i voti in conformità alle istruzioni impartite dai Länder (gli Stati federati) che li hanno designati: di fatti, in tal modo, sarebbe stato direttamente l’organo democraticamente eletto a livello regionale a deliberare, per il tramite dei senatori ad esso spettanti.

Ad ogni modo, dopo aver sgombrato il campo da alcuni miti che circondano l’epopea sul superamento del bicameralismo paritario, veniamo ora a spendere qualche ulteriore considerazione sugli altri obiettivi della riforma.
In tal senso, a proposito del presunto contrasto ai costi della politica e della pubblica amministrazione, non si deve dimenticare che è stata proprio la Ragioneria dello Stato a smentire le cifre inizialmente fatte circolare dal Ministro Boschi: infatti, nella realtà i risparmi certi al Senato sarebbero pari a 49 milioni di Euro. Per non parlare poi delle Province, che verranno sì espunte dal testo della Costituzione ma, intanto, continueranno ad esistere e, anche quando dovessero infine essere abolite (con future leggi ordinarie), non è affatto certo se determineranno effettivi risparmi di spesa stante il futuro trasferimento delle funzioni (che ancora competono loro dopo la riforma Delrio) alle Regioni e agli enti locali. Inoltre, per quanto concerne il CNEL, la Ragioneria stima che dalla sua sopressione si risparmieranno circa 8,7 milioni di Euro (per inciso, se la cancellazione del CNEL richiede effettivamente una revisione costituzionale, la riduzione dei costi dello stesso dovuti a poltrone ed emolumenti per i suoi membri, anche se relativamente poco ingenti, si sarebbe comunque potuta realizzare con legge ordinaria e, sempre con legge ordinaria, lo si sarebbe potuto rivitalizzare imponendogli di adempiere, secondo precisi standard qualitativi e quantitativi, alla missione che gli consegnava l’Art. 99 Cost., come la presentazione alle Camere di un congruo numero di qualificati disegni di legge in materia economica-sociale).
Si dirà: in ogni caso, meglio poco che niente. In effetti sarebbe un rilievo condivisibile, se non fosse che un simile risparmio si sarebbe potuto ottenere con un qualsiasi comma della legge di stabilità, contrastando gli sprechi veri, oppure attraverso ordinari interventi di spending review da parte dei singoli organi costituzionali (come quelli avviati dalla Presidenza del Senato che, tra il 2013 e il 2015, hanno già portato ad una riduzione dei costi per la Camera alta pari a 114,5 milioni di Euro). Ma la questione più significativa risiede nel fatto che chi ci propina questi risparmi omette di chiarire quanto ci costerebbero, ad es., le inefficienze del sistema legislativo sopra segnalate quando abbiamo analizzato i profili di futuribili ulteriori rallentamenti nel funzionamento della Cabina di regia (il Parlamento): davvero meno del taglio di 315 indennità da senatore? Davvero meno di quanto si sarebbe potuto fare, magari, con una legge di abbattimento di tutti quei privilegi che ancora si celano dietro lo scudo di certi “diritti acquisiti” (come le famose pensioni d’oro)? D’altronde, in quest’ultimo caso, se la scusa dell’impossibilità di intervenire fosse stata quella di una giurisprudenza contraria della Corte costituzionale, cosa avrebbe impedito di varare su un punto del genere, in tempi molto più rapidi rispetto ai sei passaggi parlamentari che si sono resi necessari per la Boschi-Renzi, una legge costituzionale ad hoc composta da un pugno di articoli?

Ciò detto, chiudiamo soffermandoci sull’ultimo pilastro della riforma: quello dell’ennesima revisione del Titolo V.
A tal proposito, la direttrice seguita è stata essenzialmente quella di ridefinire le competenze legislative di Stato e Regioni in modo da rafforzare il ruolo del primo a scapito delle seconde, anche se il cambiamento riguarderà le sole Regioni ordinarie visto che l’art. 39 c. 13 del d.d.l. Boschi-Renzi stabilisce che per quelle speciali si renderanno necessarie delle “intese” con le Autonomie regionali speciali interessate (e chissà quando queste ultime accetteranno di sottoscrivere un accordo che le depotenzi?). Comunque, al di là dei dubbi sollevati da un intervento di riforma che dichiara di voler sopprimere privilegi nel mentre li rafforza (ai danni delle 15 Regioni comuni), in particolare, il suddetto rafforzamento dello Stato avverrà sopprimendo le attuali competenze concorrenti (nelle quali il livello centrale definisce la legislazione di principio e le Autonomie regionali varano quella di dettaglio) trasferendole per la maggior parte alla potestà legislativa esclusiva dello Stato. Intendiamoci, in certi casi questo tipo di intervento appariva francamente auspicabile, soprattutto con riferimento ad una serie di materie che erano state improvvidamente assegnate alle Regioni con la riforma del 2001 laddove si sarebbe richiesta una regolamentazione necessariamente uniforme a livello nazionale (come ad es. per la materia “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia”). Sennonché, con riferimento a quelle che oggi sono le principali competenze concorrenti a cui partecipano le Regioni (come la “tutela della salute”), la Boschi-Renzi ha introdotto un cambiamento di sola facciata: infatti, in tali competenze concorrenti (nelle quali, lo ribadiamo, lo Stato detta i principi e le Regioni le norme di dettaglio), la riforma si è semplicemente limitata a trasformare la legislazione di principio in competenza esclusiva dello Stato e quella di dettaglio in competenza esclusiva delle Regioni. Ad es., nella sanità, dopo la riforma lo Stato determinerà le “Disposizioni generali e comuni” lasciando alle Regioni “programmazione e organizzazione dei servizi sanitari”. Dunque, come osservato da Antonini, siamo qui in presenza di una “mera operazione gattopardesca” giacché tra livelli essenziali delle prestazioni (già di competenza eslusiva dello Stato) e principi generali dettati dal centro in materia di tutela della salute (anch’essi già di spettanza statale), anche ora, le Regioni operano in questo tipo di regime.
A quanto detto, però, va aggiunto un punto che ha implicazioni potenzialmente ancor più gravi tanto nella prospettiva dei fautori del decentramento, quanto in quella dei suoi detrattori: infatti, dal punto di vista dei primi, le Regioni hanno un senso solo nella misura in cui siano davvero autonome (nella prospettiva di certi Padri costituenti, detta autonomia era considerata funzionale ad arginare ipotetiche derive dispotiche di uno Stato eccessivamente centralista, mentre, per certi fautori delle tesi di Tiebout e Oates, la medesima autonomia era la sola garanzia che tali enti avrebbero effettivamente potuto implementare politiche funzionali a rispondere ai bisogni locali contenendo i costi e realizzando un efficiente gestione dei servizi); invece, dal punto di vista dei detrattori del decentramento, i quali già vivono con insofferenza la creazione di livelli di governo ulteriori allo Stato (vuoi perché vi ravvisano un ostacolo alla perequazione e alla solidarietà nazionale, vuoi perché ritengono che essi minino l’unità indissolubile del Paese), chiaramente, il disagio si fa ancora più grande ove si ravvisi la sostanziale inutilità di tali enti. Ebbene, la riforma Boschi-Renzi potrebbe ora riuscire nella non facile impresa di mettere tutte queste posizioni d’accordo proprio sul fatto che le Regioni potrebbero avviarsi, giustappunto, sulla via dell’inutilità. Questo, in conseguenza del ritorno, all’Art. 117 Cost., della clausola di supremazia per cui “Su proposta del Governo” lo Stato potrà, con legge approvata dalla sola Camera, scavalcare le Regioni in materie di loro competenza esclusiva allorché lo richieda la “tutela dell’interesse nazionale” e, chiaramente, arbitro su quale sia di volta in volta l’interesse nazionale sarà il ticket Governo-Camera. In buona sostanza, quindi, il rischio che ne deriverà sarà quello per cui con le Regioni non amiche (magari perché di segno politico opposto a quello del Governo nazionale) si legittimerà l’annichilimento dell’autonomia regionale, portando così a compimento un disegno invero già iniziato attraverso i condizionamenti che, fino ad oggi, sono stati imposti dal centro attraverso il canale indiretto dei vincoli finanziari introdotti dal Patto di stabilità interno dal 1998, ovvero quelli con cui lo Stato traduce per le Autonomie territoriali gli obblighi di stabilità economica assunti a Bruxelles (i quali sono stati poi ulteriormente rafforzati dalla modifica dell’art. 117 c. 1 Cost. nel 2001, che ha introdotto l’obbligo per il legislatore regionale di uniformarsi ai vincoli europei, e dell’art. 119 Cost. nel 2012, che ha formalizzato l’obbligo del pareggio/equilibrio di bilancio per tutte le Regioni, sempre in conformità ai vincoli europei e alle norme di coordinamento della finanza pubblica emanate dallo Stato).
Tra l’altro, questo è uno dei punti in cui emerge con maggiore chiarezza il carattere ingannevole della riforma Boschi-Renzi: infatti, per tranquillizzare coloro che hanno criticato questa deriva neo-centralista, l’Art. 70 Cost. attribuisce al Senato il potere di bloccare, con una deliberazione assunta a maggioranza assoluta dei propri componenti, le leggi attraverso cui la Camera volesse scavalcare le Regioni. Sennonché, il medesimo Art. 70 Cost., chiarisce poi che la Camera può superare questo “veto” con una deliberazione presa a maggioranza assoluta dei suoi componenti. Ebbene, è proprio qui che sta l’inganno: grazie alla nuova legge elettorale (il c.d. Italicum), alla Camera il Governo disporrà sempre delle maggioranza assoluta, rendendo così fattualmente inutile la previsione del predetto potere di “veto” del Senato. In sostanza, quindi, gli artefici della riforma hanno introdotto un contrappeso istituzionale nella consapevolezza che esso sarebbe risultato fin dalla sua nascita probabilmente inutile. Certo, sempre che, così come dimostrato dall’esperienza del Porcellum, non si ritrovino alle spalle una maggioranza frammentaria: nel qual caso, magari, ciò andrebbe a beneficio delle Autonomie ma, al contempo, questo avverrebbe al prezzo dell’ingovernabilità a livello centrale.
Peraltro, al di là di quest’ultimo scenario (che, ingenuamente, è ritenuto come ipotesi eccezionale dai fautori dell’Italicum), viene a questo punto davvero da chiedersi perché lo Stato abbia voluto un Senato incapace sia di tutelare le Autonomie che di incidere sul processo legislativo, se non per rallentarlo. Forse, anche in termini di costi, sarebbe allora convenuto optare per il monocameralismo. E, a ben vedere, sarebbe forse stato opportuno assorbire le Regioni nello Stato: infatti, visto che sembrano destinate a recitare un ruolo da marionette più che da protagoniste, in questo modo avremmo forse avuto un maggior contenimento di spese e una più sincera chiarezza di competenze e responsabilità (tutte in capo al duo Camera-Governo, senza più alibi, senza più scarica-barile). Con buona pace di chi, nelle Regioni aveva creduto, noi compresi, ma che, a questo punto, preferirebbe non vederle trasformate in spettri di quello che avrebbero dovuto essere nella realtà.

In definitiva, quindi, la riforma Boschi-Renzi non solo appare ben lontana dal raggiungere i suoi obiettivi ma, anzi, sembra destinata ad incrementare la caoticità del sistema nel suo complesso. Ancora una volta, anziché cercare di migliorare l’assetto istituzionale procedendo su una direttrice chiara ed univoca, si è deciso di ricominciare da capo, vanificando gli sforzi compiuti fino ad oggi dagli enti centrali e periferici che, seppur a fatica, solo ora cominciavano a interiorizzare i mutamenti intervenuti dopo il 2001.
Del tutto irricevibili, poi, appaiono le presunte rassicurazioni di coloro che tentano di sminuire le implicazioni che l’Italicum potrebbe avere nel nuovo assetto costituzionale.
Infatti, in primo luogo, ci appare particolarmente censurabile la difesa d’ufficio secondo cui, essendo l’Italicum una legge distinta da quella costituzionale su cui ci esprimeremo a dicembre, non dovremmo tenerne conto ai fini del voto: sennonché, come abbiamo visto, grazie al premio di maggioranza di 340 deputati, proprio l’Italicum renderà possibile la nullificazione del Senato e dell’autonomia delle Regioni ordinarie (specie se esso dovesse davvero funzionare come si aspettano i fautori di ambo le riforme). Senza contare che, sempre grazie al premio di maggioranza alla Camera (340 deputati) coniugato alla riduzione del numero dei senatori (da 315 a 100), le forze politiche di governo potrebbero avere gioco facile nell’elezione di cariche di garanzia fondamentali come quella del Presidente della Repubblica (specie se, dal settimo scrutinio, al raggiungimento della maggioranza richiesta per eleggerlo, quella dei 3/5 dei “votanti”, i 340 deputati alla Camera fossero aiutati da un drappello di senatori favorevoli e da una quota più o meno marcata di parlamentari esterni alla maggioranza).
In secondo luogo, non meno inaccettabile è il rilievo per cui, se la riforma costituzionale dovesse passare, non dovremmo preoccuparci di eventuali effetti distorsivi della nuova legge elettorale perché l’art. 39 c. 11 del d.d.l Boschi-Renzi permetterà ad un quarto dei membri della Camera o a un terzo dei membri del Senato di impugnare l’Italicum davanti alla Corte costituzionale. Infatti, questa è una non-risposta alle problematiche poste dalla legge elettorale: intanto, perché non è affatto certo che la Consulta cancelli le parti più critiche dell’Italicum quali il premio di maggioranza (anche se sarebbe auspicabile); inoltre, perché ancora una volta questo tipo di norma è il segno di una politica che scommette sulla tenuta di una riforma (quella elettorale) evitando di affrontare direttamente la questione, preferendo “girarla” alla Corte costituzionale, con il neanche troppo velato auspicio che quest’ultima, per evitare accuse di politicizzazione, non osi (a così stretto giro dalla pronuncia contro il Porcellum) tornare a sindacare una materia, quella elettorale, che proprio la Consulta aveva tradizionalmente inteso lasciare alla piena discrezionalità del legislatore. Inoltre, intendiamoci su un punto fondamentale: la nuova legge elettorale, costituzionale o meno che sia dal punto di vista tecnico-giuridico, è e rimane sbagliata in quanto è il segno di una politica che, sulla base dei risultati delle passate europee, pensava di fare jackpot eliminando in una volta sola le minoranze interne e le opposizioni alle prossime politiche ma che, invece, potrebbe ora consegnare il Paese alle forze più populiste e antisistema nonostante, in termini assoluti, esse siano destinate a rimanere minoranza nel Paese reale.
In terzo luogo, palesemente eccentrica appare la posizione recentemente espressa da taluni esponenti politici secondo cui le criticità dell’Italicum sarebbero venute meno dopo l’approvazione, il 5 novemebre scorso, del documento con cui la Commissione PD incaricata di proporre modifiche alla legge elettorale (per venire incontro ai rilievi delle minoranze interne) ha prospettato di abbandonare il meccanismo dell’attuale ballottaggio. Ebbene, che questa rassicurazione sia una delle più insincere tra quelle fino ad ora ricordate è presto dimostrato: infatti, con tale documento (che, per inciso, è stato criticato anche dalla gran parte della minoranza DEM, si veda Bersani, e deve ancora essere sottoposto all’Assemblea nazionale, alla Direzione e ai gruppi parlamentari del PD), ci si trova essenzialmente in presenza di una generica dichiarazione di intenti con cui, nel mentre si ipotizza il suddetto supermento del ballottaggio, si tiene fermo il premio di maggioranza, ribattezzato col nome di “premio di governabilità”, senza peraltro specificare in che modo dovrebbe differenziarsi da quello attuale. D’altronde, se ci si limita a parlare di premio atto ad assicurare la “governabilità” (oltretutto continuando a non chiarire se sarà un premio “di lista o di coalizione”), non c’è ragione di credere che esso sarà diverso da quello attuale (se non per il fatto che verrà attribuito direttamente al primo turno, senza passare per il ballottaggio). Pertanto, ribadiamo la nostra domanda: quanto agli effetti distorsivi (sopra evidenziati) che l’attuale premio di maggioranza produrrebbe sul nuovo assetto costituzionale, perché questo “premio di governabilità” dovrebbe divergere da quello già vigente? La verità è che, sebbene il concetto stesso di “governabilità” ci porti ad escludere che autentici cambiamenti ci saranno (lo si è già rimarcato), si vuole giocare sul fatto che non ci è stato detto espressamente cosa accadrà. Vogliono farci intendere che ci potrà essere una revisione dell’Italicum ma non vogliono chiarire se effettivamente ci sarà ed, eventualmente, quale essa sarà. Davvero l’atteggiamento che ci si sarebbe aspettati da parte di quegli stessi riformatori che si vantano di aver formalmente inserito la parola “trasparenza” in Costituzione (come se prima la Costituzione non la imponesse già sul piano sostanziale). Ma perché una simile reticenza sui dettagli? Perché il diavolo sta proprio nei dettagli e, scegliendo di non fornirli, ci si pone nella condizione di contestare a chiunque avanzi critiche all’Italicum che queste sarebbero critiche infondate perché si è già deciso di correggere (dopo il referendum) ogni errore fin qui emerso. Il che, nonostante non si sia preso un impegno preciso, circostanziato e “trasparente” a farlo, ma si sia solo manifestata un’intenzione ambigua che, non si sa per quale ragione, dovremmo ora prendere tutti per buona. Ovviamente, al buio. Ma cos’è questa se non l’ennesima dimostrazione di un modo di fare politica che, anziché ammettere di essersi cacciato in un imbarazzante cul-de-sac, cerca di aggirare i problemi con l’ennesimo gioco di prestigio?

In ultima analisi, al cospetto di questo assai poco edificante scenario, ciò che appare più grave è che un’altra volta si sta cercando di far credere a questo Paese che i problemi di governance dipendano da fattori esterni alla politica (come la Costituzione e la legge elettorale) anziché intrinseci alla stessa. Questo, per bloccare le vere riforme, quelle che passano per il rinnovamento del carattere democratico e meritocratico tutto interno a partiti i quali, attualmente, non riescono più ad intercettare le grandi masse e, quindi, cercano di trasformare il consenso minoritario che hanno nella realtà, in consenso maggioritario all’interno del Parlamento: il che, attraverso riforme che sono uno specchietto per le allodole, che rinviano solo il riproporsi dei problemi di ingovernabilità che hanno caratterizzato tutta la c.d. Seconda Repubblica e che, dunque, sono il segno di una cronica incapacità di questa politica di imparare dagli sbagli del passato. Sbagli che, oggi, non possono più essere ripetuti. Oggi che di politica c’è bisogno, ma a partire da un rinnovamento genuino che non sia affidato alla bacchetta magica dell’ennesima riforma che di grande ha solo l’effimero.
Il nostro è il NO di una generazione che vuole riprendersi in mano la realtà, contro tutti i venditori di illusioni.