– A cura di Giovanni Russo – Scissione: che brutta parola! Brutta forse, ma sicuramente familiare, visto che la Sinistra la scissione ce l’ha nel DNA, nella storia, nella sua stessa genesi: dal momento che il Partito Comunista Italiano è nato a Livorno nel 1921 dalla rottura con il Partito Socialista. Sullo sfondo un evento epocale come la Rivoluzione d’ottobre e la convinzione che anche per l’Italia i tempi fossero maturi per una svolta massimalista, arriverà invece il fascismo e un ventennio di dittatura. Nell’immediato dopoguerra a Palazzo Barberini nemmeno la disperazione di Sandro Pertini che arriva addirittura a minacciare il suicidio riesce a trattenere Saragat, che esce dal Partito Socialista essendo in dissenso con la politica di Nenni, e da vita al Partito Socialista dei Lavoratori Italiani. Ma non è finita, proprio quando entra nella stanza dei bottoni, il PSI subisce una nuova scissione, nel 1964 nasce un nuovo Partito Socialista, il terzo, e si chiama PSIUP, una breve pausa e nel 1969 è la volta dei Social Democratici guidati da Mario Tanassi e Mauro Ferri; poi dopo la disastrosa prova elettorale del 1972, il PSIUP decide di riconfluire nel PCI, tranne un’ala guidata da Vittorio Foa che darà vita al PDUP, il Partito di Unità Proletaria, che poi a sua volta si fonderà con il gruppo del Manifesto, cioè gli eretici come Natoli, radiati dal PCI. Una spirale di rotture, separazioni e disgregazione, alla base sempre lo stesso dilemma: rivoluzione o riforme, lotta di classe o responsabilità di governo. Negli anni 70 esplode la contrapposizione tra PCI e la galassia dei movimenti extra parlamentari, quell’affollato angolo di famiglia in cui si è già infiltrata l’immagine tragica del partito armato. C’è chi parla di male oscuro o di sindrome autodistruttiva, per spiegare questo impulso a dividersi talvolta tra visioni inconciliabili della società, talvolta per ragioni storiche. Dopo la caduta dell’Impero Sovietico, falce e martello, bandiere rosse e inni rivoluzionari sembrano improvvisamente da archiviare. Dalle ceneri del PCI nasce il PDS, il Partito dei Democratici di Sinistra, ma lacrime e rimpianti accompagnano la fine di un mondo che scompare, infatti alcuni dirigenti contrati alla svolta, Armando Cossutta e Sergio Garavini, danno vita a Rifondazione Comunista, destinata a ulteriori scissioni, prima con Diliberto, poi con Vendola da una parte e Ferrero dall’altra, senza dimenticare Marco Rizzo. La scissione è il demone della sinistra, ha detto Walter Veltroni, protagonista 10 anni fa al Lingotto per una volta, dell’unificazione tra i DS e la Margherita che danno vita al PD; ma anche in questo caso c’è chi dice no, Fabio Mussi e Daniele Salvi che creano un altro movimento politico, Sinistra Democratica, poi confluito in SEL. A proposito mentre domenica a Roma si consumava la quasi scissione, a Rimini, nasceva Sinistra Italiana, erede di SEL, un nuovo partito, un nuovo Segretario, Nicola Fratoianni.

Insomma questo PD si spaccherà o non si spaccherà? E se sì, quando? Chi se ne andrà davvero? Erano questi i dilemmi all’indomani dell’assemblea nazionale del Partito Democratico in cui il segretario Matteo Renzi si era dimesso, sì, ma per accettare la sfida della dissidenza dicendo: “Peggio della scissione c’è soltanto il ricatto”, dando così il via formalmente alla fase congressuale. Alla fine il giorno della scissione, dopo una settimana di accelerazioni e retromarce, è finalmente arrivato. Ad andarsene, però, sono solo i bersaniani – compreso l’ex candidato alla segreteria dei democratici Roberto Speranza – e Enrico Rossi, presidente della Regione Toscana, i quali non si presentano alla direzione del Partito Democratico e ufficializzano la nascita di un nuovo soggetto di Centrosinistra. Resta, invece, a sorpresa ma non troppo, Michele Emiliano, governatore della Puglia, che anzi rilancia: “Nessuno mi può cacciare, questa è casa mia. Gli anni del leader? Rampanti e sterili”, ufficializzando la sua candidatura alla guida del partito. L’unica novità interna alla Sinistra del Partito Democratico è quella del Ministro della Giustizia Orlando che scioglie la riserva: “Ho deciso di candidarmi perché credo e non mi rassegno al fatto che la politica debba diventare solo prepotenza, il partito deve cambiare profondamente per essere utile all’Italia. E mi presento per vincere”.
Insomma in attesa di regole, date del congresso, di piattaforme programmatiche oltre che di ulteriori fuoriuscite e (im)probabili ricomposizioni, non resta che goderci lo spettacolo.