A cura di Francesco Severa – La grande attesa, rassegnata e colpevole, che si è creata negli ultimi mesi intorno alla sentenza della Corte costituzionale sulla legge elettorale è un sintomo inequivocabile della profonda crisi che vive la Politica in questa nostra Italia. La sanità di un sistema democratico, cioè il fatto che un determinato complesso istituzionale risponda realmente ad un principio di determinazione popolare, non può che misurarsi su una pluralità di fattori. L’esistenza di istituzioni rappresentative, come anche un ben congegnato sistema di bilanciamento di poteri, e poi un’adeguata tutela del dissenso, sono elementi formali ma necessari alla caratterizzazione democratica di una forma di governo. Ci sono però elementi sostanziali che con maggiore chiarezza possono aiutarci a determinare in che misura un complesso istituzionale risponda ad un principio di sovranità popolare. Democrazia innanzitutto significa che il primato assoluto delle decisioni che contano per un paese appartiene alla Politica, intesa come espressione della volontà popolare dichiarata attraverso il voto. La Politica, dovendo normalmente avere quale unico interesse concreto da ricercare un sostegno elettorale sempre più ampio, è potenzialmente l’unica a poter rappresentare, nel modo più genuino possibile, la testarda ragionevolezza del sentire dell’Uomo comune. Ora, le motivazione alla sentenza che la Corte costituzionale ha emanato sull’Italicum non fanno altro che sancire, nero su bianco, quanto in Italia proprio tale primazia si stia seriamente mettendo in dubbio.

Va chiarito anzitutto che la Corte costituzionale, nel suo ruolo istituzionale di giudice e garante ultimo del rispetto delle regole costituzionali, è chiamata ad agire entro limiti ben precisi e definiti da regole processuali. Essendo chiamata a verificare la conformità a Costituzione delle leggi e degli atti aventi forza di legge esclusivamente sotto l’aspetto della <<legittimità costituzionale>> (art. 134 Cost.), la Corte rappresenta semplicemente un “giudice di legittimità”, ciò significa che ad essa è specificatamente precluso ogni sindacato di merito sul contenuto delle leggi che sono sottoposte al suo giudizio. A tutela di questo ruolo, le disposizioni che regolano il processo dinanzi alla Consulta stabiliscono un preciso e ben congegnato filtro: una questione di legittimità costituzionale può essere sollevata dinanzi la Corte solo quando sia nata riguardo le disposizioni e le norme da applicare incidentalmente <<nel corso di un giudizio>> (art. 1 l. cost. n. 1/1948), così da costringere i giudici costituzionali a decidere non sulla legge in astratto, così come emanata dal Parlamento, ma sulla sua applicazione in concreto – principio di ricorso in via incidentale. A ciò si affianca poi lo specifico divieto per la Corte di <<ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento>> (art. 28 l. n. 87/1953), cioè il divieto di interferire su quello che è l’ambito di libera determinazione politica affidata all’organo legislativo. Regole queste funzionali a disegnare dunque per il “giudice delle leggi” un ruolo da arbitro e garante, come anche ad impedire che questo stesso giudice possa trasformarsi in giocatore con casacca.

Osservando però quanto la Corte riporta nella sentenza n. 35 del 2017, viene da chiedersi se questi limiti siano stati realmente rispettati. Il problema non riguarda tanto la decisione nel merito, cioè le declaratorie di incostituzionalità riguardo le singole questioni poste all’attenzione della Corte. Si deve riconoscere che nel sanzionare il ballottaggio, come anche il metodo di assegnazione del seggio agli eletti in più collegi, la Corte sottolinei come essa stessa abbia <<sempre riconosciuto al legislatore un’ampia discrezionalità nella scelta del sistema elettorale che ritenga più idoneo in relazione al contesto storico-politico in cui tale sistema è destinato ad operare, riservandosi una possibilità di intervento limitata ai casi nei quali la disciplina introdotta risulti manifestamente irragionevole>>. Ben due volte la Corte dichiara di non avere alcuna intenzione di porre in essere azioni manipolative della legge elettorale, stabilendo essa stessa soglie e percentuali, ricordando che <<ciò spetta all’ampia discrezionalità del legislatore al quale il giudice costituzionale, nel rigoroso rispetto dei propri limiti d’intervento, non può sostituirsi>>. Il punto su cui dovremo al contrario ragionare è il particolare procedimento di accesso al giudizio di costituzionalità che la Consulta ha creato per la legge elettorale. Stando a quel principio incidentale, di cui prima si parlava, la Corte può accettare di definire una questione di legittimità costituzionale solo se essa è sorta durante un  giudizio di fronte ad un giudice ordinario, il quale si è trovato incidentalmente ad applicare una norma di legge che ritiene essere incostituzionale. Solo dunque se il giudice ordinario dimostra che quel giudizio non può essere risolto senza l’applicazione di quella norma di dubbia costituzionalità e se lo stesso giudice dimostra che tale dubbio sia non manifestamente infondato, la Corte può accettare di discutere la questione. Questa disciplina aveva sostanzialmente sempre impedito che in passato una legge elettorale finisse a giudizio davanti alla Consulta, per il semplice fatto che è assai improbabile che, durante un giudizio ordinario, un giudice si possa trovare ad applicare un articolo di una legge elettorale, le cui disposizioni sono comunque indirizzate esclusivamente a trasformare l’espressione del voto popolare in seggi parlamentari. Nella sentenza n. 1 del 2014 – quella che dichiarò incostituzionale parte del “Porcellum” – però, la Corte, prima volta nella storia, ha accettato un siffatto ricorso, argomentando, come da sua costante giurisprudenza, che anche ove il giudizio a quo sia stato attivato solo con l’intento di arrivare alla declaratoria di incostituzionalità – cosa che nel caso era alquanto evidente – esso è ammesso al giudizio di costituzionalità quando ricorrano specifiche condizioni giuridiche – cioè che tale giudizio costituzionale non esaurisca la richiesta davanti al giudice ordinario: questione che a noi interessa solo marginalmente – e quando la Corte riscontri la necessità di proteggere due specifiche esigenze: innanzitutto l’esigenza di tutelare il diritto di voto, il quale svolge <<funzione decisiva nell’ordinamento costituzionale>>; in secondo luogo <<l’esigenza che non siano sottratte al sindacato di costituzionalità le leggi, quali quelle concernenti le elezioni della Camera e del Senato, che definiscono le regole della composizione di organi costituzionali essenziali per il funzionamento di un sistema democratico-rappresentativo e che quindi non possono essere immuni da quel sindacato>>. Queste considerazioni, che erano valse all’ammissibilità del sindacato sul “Porcellum”, sono state completamente riproposte nella sentenza sull’Italicum, quale <<precedente cui questa Corte intende attenersi nel valutare le eccezioni di inammissibilità per difetto di rilevanza, in relazione a questioni di legittimità costituzionale sollevate nell’ambito di giudizi introdotti da azioni di accertamento aventi ad oggetto la «pienezza» – ossia la conformità ai principi costituzionali – delle condizioni di esercizio del diritto fondamentale di voto nelle elezioni politiche>>. La Corte dichiara apertamente dunque che con la sentenza n. 1 del 2014 ha introdotto una surrettizia specifica procedura per l’accesso al giudizio della Consulta delle leggi elettorali. Una procedura che deduciamo essere apertamente in deroga al principio di incidentalità – principio questo costituzionale in quanto sancito dalle l. cost. 1 del 1948 – e che è stata creata con la finalità di <<evitare la creazione di una zona franca nel sistema di giustizia costituzionale, in un ambito strettamente connesso con l’assetto democratico dell’ordinamento>>.

La gravità di queste asserzioni sta nel fatto che la Corte, ispirata da un esasperato solipsismo, si è ritagliata autonomamente uno strumento di controllo di costituzionalità aggirando gli stessi principi che la Costituzione gli imponeva. Ancor peggio, ha ammesso l’utilizzo di questo particolare strumento non solo su una legge come il Porcellum, che comunque aveva avuto applicazione prima del giudizio per ben tre tornate elettorali – 2006, 2009 e 2013 -, ma anche sull’Italicum, che dopo la sua approvazione mai è stata applicata ad elezioni politiche, ammettendo dunque un controllo di tipo astratto su una legge, assolutamente vietato nel nostro ordinamento costituzionale. Pur ammettendo che i principi processuali che regolano il ricorso alla Consulta costruiscano una <<zona franca>> nell’ambito delle leggi elettorali, possiamo con certezza affermare che questo rappresenti un vulnus e non al contrario uno specifico limite? Riguardo la legge elettorale va osservato un particolare, tanto macroscopico ed evidente quanto forse scandaloso: è l’atto più politico che esiste in un sistema democratico. In quanto accordo sulle fondamentali regole del gioco, la legge elettorale è l’espressione della reciproca legittimazione tra le forze politiche di una nazione; il rispetto delle regole che essa pone è la condizione per accettare la vittoria elettorale della forza avversaria. Ciò la rende argomento particolarmente sensibile e ne suggerisce uno status peculiare. Non è forse ragionevole pensare che l’assoluta immunità della stessa dal sindacato di costituzionalità di fronte alla Corte rappresenti una ben ponderata scelta del legislatore costituzionale, finalizzata ad evitare che la Consulta possa vedersi costretta ad operare in un campo che si trova pericolosamente al confine tra giurisprudenza e politica?

E’ difficile non pensare che la Corte costituzionale si sia spinta troppo oltre in queste sue decisioni, forzando, nemmeno in maniera troppo nascosta, il suo ruolo di garante. Non sarebbe corretto però leggere questo atto come un isterico tentativo di destabilizzare il nostro sistema costituzionale, per quanto non si può negare che alcuni dei giudici che oggi siedono alla Consulta non sono estranei a particolari logiche politiche. Piuttosto ci troviamo di fronte al necessario intervento di un organismo di garanzia nel vuoto lasciato dalla viltà della classe dirigente di questo paese, che apertamente e senza vergogna ha preferito attendere la pronuncia della Corte, invece che aprire le porte di Montecitorio per fare qualcosa di utile. La Politica, travolta, in questo preciso momento storico, da un’ondata di sfiducia e frustrazione, ha deciso di abdicare al suo ruolo; ha deciso di cedere responsabilità a tecnici e garanti; ha deciso di evitare criticabili scelte di rottura. Il colpevole rifiuto della categoria del “politico”, considerata il crogiuolo di ogni umana nefandezza, sta lasciando troppi fronti scoperti, che per necessità – a volte purtroppo anche in mala fede – vengono riempiti da altri. Ancor più colpevoli sono poi i friniti di troppi grilli canterini, gonfi solo del loro vuoto e della loro incapacità, che lucrano il loro successo elettorale su questo sentimento, senza rendersi conto di come alla fine travolgerà anche loro. Quando quindici anziani giudici, giustamente più attenti ai raffinati distinguo del diritto che alla esigenza di tutelare il mistico, ragionevole e cocciuto pensiero dell’Uomo comune, forzatamente si ritagliano un ruolo che non hanno perché i rappresentanti del popolo hanno tradito la loro elettiva ispirazione, forse dovremmo chiederci se ancora possiamo parlare di democrazia. Il sonno colpevole della Politica va interrotto, prima che consegni definitivamente il paese nelle mani di qualche diabolico conciliabolo – leggasi corporazioni più o meno organizzate – che alla sovranità del popolo finiscono sempre per preferire la loro propria sopravvivenza. Che qualcuno batta un colpo! Che qualcuno li svegli!