roma trascrive - centro-destra– A cura di Francesco Severa – La tanto discussa sentenza, emanata dalla Terza Sezione giurisdizionale del Consiglio di Stato, che ha riconosciuto legittima l’azione del prefetto di Roma finalizzata ad inibire la trascrizione in Italia dei matrimoni tra persone dello stesso sesso contratti all’estero, è un inno al pudore giuridico. Una fotografia assai cruda e forse per questo abbastanza sconvolgente di come il nostro ordinamento concepisca il vincolo matrimoniale. E’ assai allarmante constatare come si sia riusciti a leggere in maniera ideologica un testo che con un linguaggio tanto freddo e tecnico quanto elegante, nel segno – verrebbe da dire – della migliore tradizione giuridica, mette nero su bianco un principio, del quale soltanto una persona in malafede potrebbe negare l’oggettiva verità: nel nostro ordinamento giuridico il matrimonio può avvenire soltanto tra due persone di sesso opposto. Non è una posizione politica, ma bensì la presa d’atto di un’evidente realtà: “risulta agevole individuare la diversità di sesso dei nubendi quale la prima condizione di validità e di efficacia del matrimonio, secondo le regole codificate negli artt. 107, 108, 143, 143 bis e 156 bis c.c. ed in coerenza con la concezione del matrimonio afferente alla millenaria tradizione giuridica e culturale dell’istituto, oltre che all’ordine naturale costantemente inteso e tradotto nel diritto positivo come legittimante la sola unione coniugale tra un uomo e una donna.” Si diceva del pudore all’inizio proprio perché i giudici non hanno tentato, come successo in altri casi e su argomenti ancora più scottanti di questo, di arrogarsi un potere creativo del diritto attraverso l’uso di strumenti ermeneutici, quelli sì molto influenzabili dalla libera coscienza del singolo, ma, rispettando il principio democratico che vuole negli accesi dibattiti delle aule parlamentari, legale rappresentazione della volontà popolare, e non nelle oscure camere di consiglio dei tribunali il luogo eletto per la formazione della legge, hanno semplicemente constatato che, rebus sic stantibus, un matrimonio tra persone omosessuali contratto all’estero manca di un requisito fondante per avere effetti giuridici nel nostro paese: la differenza di sesso degli sposi. Viene da chiedersi allora il motivo per cui qualcosa di così paradossalmente innocuo come la constatazione del vero abbia al contrario scatenato l’ira funesta dei custodi del progressismo militante; viene da chiedersi perché sulle maggiori testate nazionali in questi giorni, non solo quelle tradizionalmente iscritte al club del progresso arcobaleno, ma anche alcune che si fregiano – fregiavano – del senso della misura come attributo storico, ci si sia lanciati non in una legittima critica dei contenuti di una sentenza che per il tema trattato non poteva che attirare l’attenzione del dibattito politico del nostro paese, ma al contrario in un’assurda accusa di imparzialità lanciata contro due giudici che hanno fatto parte del collegio giudicante, in quanto, udite udite, sarebbero dei pericolosi praticanti cattolici. Non solo uno dei due, il presidente del collegio, sarebbe membro di un’associazione sovversiva quale l’Opus Dei, ma il giudice estensore, quello che materialmente ha scritto la sentenza per capirci, tale Deodato – un nome su cui riflettere – avrebbe addirittura “ritwittato” – un atto che evidentemente mina fin nelle fondamenta il vivere comune della nostra società – alcuni post di un noto inquietante manipolo di manigoldi come “le sentinelle in piedi”, colpevoli di protestare in maniera veemente fermandosi, pensate un po’, a leggere libri silenziosamente al centro delle maggiori piazze del paese. Insomma mancava soltanto che fosse chiamato in causa quello che Giampaolo Pansa indica come il tipico luogo comune della peggiore sinistra, il F.o.d.r.i.a. (forze oscure della reazione in agguato), e il quadro sarebbe stato completo. Tralasciando il lato grottesco della vicenda, è inquietante osservare come difronte ad un problema così sentito nella società attuale, il dibattito si sia trasformato in un tentativo non troppo nascosto di delegittimazione di chi si oppone ancora alle future sorti e progressive dell’umanità. In un’operazione degna delle migliori pagine di George Orwell, si è tentato di additare come bigotto e antimoderno, con una parola un “omofobo”, espressione ormai divenuta il termine eletto per chi vuole indicare le personalità più deviate che vivono nella nostra società, chiunque non riconosca il diritto all’amore omosessuale. Un diritto che dovrebbe realizzarsi nell’assoluta parificazione giuridica, ma soprattutto culturale, con l’amore eterosessuale. Insomma ad una sentenza così palesemente intesa solo a mostrare l’esistente, senza alcun tipo di slancio contro o a favore, si è reagito in maniera ideologica. Ecco, l’ideologia. E’ passato sotto silenzio l’appello, riportato poi sul suo blog da Antonio Socci, che, lo scorso 17 ottobre, ha presentato al Sinodo sulla famiglia la dottoressa Anca-Maria Cernea, presidente dell’Associazione dei Medici Cattolici di Bucarest: “La povertà materiale e il consumismo non sono le cause principali della crisi della famiglia. La causa principale della rivoluzione sessuale e culturale è ideologica. […] Adesso viene soprattutto dal marxismo culturale. C’è continuità dalla rivoluzione sessuale di Lenin, attraverso Gramsci e la Scuola di Francoforte, alla odierna difesa ideologica dei “diritti” dei gay. Il marxismo classico pretendeva di ridisegnare la società per mezzo della violenta appropriazione dei beni. Adesso la rivoluzione va ancora più in profondità: pretende di ridefinire la famiglia, l’identità sessuale e la natura umana. Questa ideologia si autodefinisce progressista”. Tralasciando il dato di filosofia politica qui esposto, che va certamente approfondito, è profondamente vero il fatto che quando, in Occidente, si parla di diritti per gli omosessuali, non si parla semplicemente delle garanzie che necessariamente devono essere riconosciute ai singoli per permettergli di vivere, nella maniera che più ritengono opportuna, la loro esistenza, non si parla semplicemente di rivendicazioni di politica sociale; si tenta al contrario di imporre in maniera surrettizia dei principi che segnano una profonda rottura rispetto a come per secoli abbiamo inteso il nostro modo di vivere insieme. Il concetto di “gender”, per esempio, che dovrebbe convincerci che la nostra sessualità non è qualcosa che ineluttabilmente ci deriva dai nostri attributi naturali, ma è bensì il frutto di una scelta consapevole di cui noi siamo gli unici arbitri, non è forse un assioma ideologico? Dovremmo forse allora ragionare su quanto oggi la nostra società sia vulnerabile davanti a nuove forme di totalitarismo del pensiero, che si impongono, anche se inedite, con i soliti vecchi schemi e i soliti vecchi metodi. La delegittimazione dell’altro basata su quello che pensa e che crede, basata sulla sua fede religiosa, è una forma subdola di dittatura. E lo è perfino quando ad ispirarla è la nobile causa del progresso per amore del progresso. Il disgustoso spettacolo di insulti e disconoscimento a cui abbiamo assistito in questi giorni contro una sentenza che è tutto fuorché politica, tutto fuorché dottrinaria, animato da chi si definisce paladino della tolleranza, che abbiamo capito essere a senso unico, sfiora il ridicolo proprio quando addirittura ipotizza la necessità di un’astensione dal giudizio su temi inerenti il matrimonio omosessuale del giudice che si professa cattolico. E’ forse ora di tornare al buon senso, ne va della credibilità di molti, ne va della credibilità di tutti.