-di David Crescenzi- Nella giornata del 25 Gennaio la Consulta ha reso noto con un comunicato stampa di aver dichiarato la parziale incostituzionalità della disciplina elettorale attualmente vigente per la Camera, quella di cui alla legge n 52/2015 (c.d. Italicum): in primis, nella parte che attribuiva un premio di maggioranza del 54% dei seggi alla lista più votata nell’ipotetico secondo turno di ballottaggio; in secundis, in quella che consentiva al capolista eletto in più collegi di scegliere a sua discrezione il proprio collegio d’elezione. Peraltro, non essendo ancora note le motivazioni (che verranno depositato nelle prossime settimane), sembra opportuno provare a illustrare i caratteri della sentenza in oggetto alla luce della precedente giurisprudenza della Corte che, per molti aspetti, fa dell’odierna decisione un pronunciamento ragionevolmente annunciato.

Ricordiamo tutti la vicenda della sentenza n. 1 del 2014, con cui la Corte costituzionale, dopo una serie di moniti precedentemente lanciati al Parlamento in sede di giudizi di ammissibilità su alcune richieste di referendum abrogativi della legge n. 270/2005 (legge Calderoli o “Porcellum”), si risolse infine per la declaratoria di parziale incostituzionalità di quest’ultima. Ora, a dimostrazione del carattere eccezionale della pronuncia in parola, giova in questa sede ricordare che proprio la Consulta, ieri come oggi, non avrebbe voluto interferire direttamente con la «determinazione delle formule e dei sistemi elettorali», i quali, pur potendosi certamente censurare «in sede di giudizio di costituzionalità» ove determinino un assetto «manifestamente irragionevole», tuttavia, dovrebbero costituire «un ambito nel quale si esprime con un massimo di evidenza la politicità della scelta legislativa» (Corte cost. n. 1/2014; v. anche Corte cost. n. 242/2012). Insomma, avrebbe dovuto essere la politica a rimettere mano sul sistema elettorale senza farsi commissariare dal Giudice delle leggi. Sennonché, proprio alla luce della protratta inerzia del legislatore nel rimuovere i vizi di incostituzionalità presenti nell’allora vigente legge elettorale, come si anticipava, la Corte dovette intervenire.

Nel dettaglio, venendo al merito delle questioni, si osserva che il vizio più macroscopico che la Consulta aveva invitato a rimuovere fin dal 2008 (Corte cost. n. 15/2008; Corte cost. n. 16/2008; Corte cost. n. 13/2012) riguardava il meccanismo del premio di maggioranza. Infatti, pur essendo astrattamente ammissibili dei correttivi di governabilità come il premio anzidetto, tuttavia, questi non avrebbero potuto spingersi fino a trasformare qualsiasi maggioranza relativa (e, segnatamente, una che fosse risultata grandemente inferiore alla maggioranza effettiva dei suffragi) in maggioranza aritmetica in Parlamento. In sostanza, se una lista di maggioranza relativa assai esigua fosse stata sovrarappresentata al punto di determinare, grazie al premio, la cancellazione di milioni di voti indirizzati dagli elettori ad altre liste (che, per far posto ai parlamentari entrati con il premio, non sarebbero state rappresentate o lo sarebbero state in misura significativamente inferiore al loro effettivo peso democratico nel Paese), ne sarebbe derivata una violazione così grave e sproporzionata al principio di eguaglianza del voto, da non potersi dire ragionevolmente bilanciata dalle esigenze della governabilità, a meno di non voler abbandonare la logica del principio democratico su cui si fonda l’intera Costituzione (a partire dal ben noto art. 1). Pertanto, di qui venne l’invito della Corte a prevedere una soglia minima (e ragionevole) per poter introdurre un premio di maggioranza. Del resto, se si guarda alla storia repubblicana, si osserva che l’unico precedente del premio di maggioranza, quello introdotto dalla legge n. 148/1953 voluta da De Gasperi, intendeva assicurare la governabilità nel senso di attribuire il 65% dei seggi alla lista che fosse riuscita ad ottenere più del 50% dei suffragi effettivi (circostanza che comunque non si verificò, determinando così la non attivazione del premio e il successivo abbandono dello stesso).

Ad ogni modo, accanto al vizio concernente la disciplina del premio di maggioranza, la Corte costituzionale ne segnalava anche un altro. In particolare, oggetto di censura era il meccanismo delle liste bloccate e, più in generale, la sottrazione all’elettore della scelta, libera e consapevole, in ordine ai propri rappresentanti. Infatti, sebbene fosse costituzionalmente ammissibile che i partiti esercitassero delle funzioni di raccordo tra suffragio popolare e selezione del personale politico da mandare in Parlamento, tuttavia, tali funzioni avrebbero comunque dovuto essere «preordinate ad agevolare la partecipazione alla vita politica dei cittadini» e, in questo quadro, anche la scelta sull’ordine di presentazione delle candidature in ciascuna lista sarebbe risultata legittima «a condizione» che al cittadino fosse stato concesso di optare per «questo o quel candidato incluso nella lista prescelta, attraverso il voto di preferenza» (con il che la Corte estendeva al Parlamento una pronuncia già operata nel 1975 in relazione alle elezioni comunali). Poi, per quanto oggi più interessa, si aggiungeva che, tra i meccanismi in contrasto con il principio in parola si ponevano, altresì, la «possibilità di candidature multiple» e la «facoltà dell’eletto di optare per altre circoscrizioni sulla base delle indicazioni del partito», intesi come accorgimenti doppiamente inaccettabili perché: da un lato, finivano con il frustrare anche l’eventuale aspettativa del cittadino-elettore che almeno fosse rispettato l’ordine di lista (infatti, ciò sarebbe avvenuto solo nel collegio per cui avesse optato il candidato eletto in più collegi); dall’altro lato, assegnavano al candidato (o al partito), e non all’elettore, la scelta su quali candidati sarebbero entrati in Parlamento (infatti, nel momento in cui il candidato avesse optato per un dato collegio, avrebbe fatto sì che, negli altri collegi, si verificasse l’ingresso dei primi dei non eletti, i quali venivano così ad essere scelti da lui).
Orbene, la successiva legge n. 52/2015 (c.d. Italicum), fece tesoro solo in parte della citata giurisprudenza della Corte.
Così, nel riproporre il meccanismo premiale, decise che, almeno al primo turno, solo la lista che avesse ottenuto non meno del 40% dei voti effettivi avrebbe potuto guadagnare il premio: come è evidente, si trattava di una condizione che teneva conto dei rilievi della Corte, tanto che quest’ultima, nella sentenza del 25 gennaio, ha fatto salvo il meccanismo in questione. Per contro, a porsi in stridente contrasto con le posizioni precedentemente espresse dalla Consulta fu il meccanismo premiale previsto per il secondo turno di ballottaggio giacché, stavolta, non si chiedeva più la soglia minima e, così, si ripresentavano tutte le criticità che avevano condotto alla incostituzionalità del premio di maggioranza previsto dalla legge Calderoli.
Invece, quanto al sistema degli accorgimenti tesi a non frustrare la libertà di voto, libero e consapevole dell’elettore, l’Italicum agì sì nel senso di temperare (comunque solo in parte) il meccanismo delle liste bloccate (introducendo la doppia preferenza di genere), tuttavia, lasciò in vita anche delle logiche a suo tempo dichiarate irricevibili dalla Corte, come quella di rimettere al capolista plurieletto in diversi collegi (che avrebbero potuto essere fino a 10) la scelta, al momento dell’opzione per l’uno anziché per l’altro, di quali colleghi far entrare in Parlamento.

In buona sostanza, ciò dimostra che la nuova pronuncia della Corte non solo era annunciata, ma che gli artefici dell’Italicum sono stati addirittura temerari, giacché era chiaro fin dal 2014 quali dovessero essere i caratteri minimi per il varo di un meccanismo premiale e di un sistema di redazione delle liste che potessero dirsi conformi al principio democratico inscritto nella Costituzione. Dunque, non sorprende che: da una parte, il premio di maggioranza al ballottaggio sia sia stato dichiarato incostituzionale; dall’altra parte, il sistema delle candidature di uno stesso candidato in più collegi sia stato a sua volta investito dalla pronuncia, anche se, in attesa delle motivazioni, desta forse qualche perplessità rispetto alla logica seguita dalla Corte che, qui, quest’ultima non si sia spinta sino in fondo (infatti, la candidatura plurima sarà ancora possibile anche se, almeno per sottrarre ai candidati plurieletti la piena discrezionalità in ordine alla scelta dei collegi di opzione, la Consulta ha rinviato all’applicazione del criterio residuale di cui all’art. 85 d.p.r. n. 361/1957, il quale, per l’ipotesi in cui il candidato plurieletto non effettui alcuna opzione, prevede il ricorso al sorteggio che, a quanto pare, per la Corte sarebbe comunque più rispettoso della volontà degli elettori dei diversi collegi rispetto a una opzione verticistica effettuata dai partiti).

Ad ogni modo, a parte quelle che potrebbero essere le eventuali aporie o limiti della sentenza del 25 gennaio, resta un dato politico su cui riflettere, specie in casa di chi, prima di volere l’ultima legge elettorale adesso dichiarata così lesiva dei principi democratici, la democrazia l’aveva perfino inserita nel nome del proprio partito.