italiani-di Luca Proietti Scorsoni- Quel che dirò prescinde da ipotetiche convenienze elettorali, magari di stampo referendario, mentre ha molto a che vedere con una questione di principio. Principio liberale, per essere precisi. Sin dalla genesi del testo legislativo non ho mai condiviso in toto l’intento di dare la facoltà di voto agli italiani residenti all’estero. Infatti, nonostante questo sia stato un progetto politico inseguito a lungo dalla destra nazionale, e portato a compimento dal compianto Mirko Tremaglia, ho sempre ritenuto fuorvianti le sue motivazioni concettuali di base. Credo che un elettore dia al proprio rappresentante, mediante l’esercizio del voto, la possibilità di realizzare un corollario programmatico reso manifesto durante la campagna elettorale. E questo in virtù di due elementi essenziali in un contesto democratico. Il primo è quello relativo al pagamento delle imposte mentre il secondo si lega al fatto che il legislatore deve esercitare la sua funzione nel contesto territoriale di colui che lo elegge. Ebbene, nessuno dei due aspetti cardine riguarda coloro che vivono stabilmente fuori dai confini patrii. Quel che ho appena scritto non vuol di certo intaccare il naturale nonché comprensibile desiderio degli emigranti e dei loro figli di mantenere un forte legame con la propria terra natale. Ma non è detto che quella elettorale sia l’unica strada percorribile. Meglio di un voto che non avrà alcuna ripercussione nelle loro vite gli italiani all’estero hanno costantemente l’occasione di tenere vivo il sentimento patriottico tramite la continua scoperta della cultura, della lingua, della storia e financo del cibo dei loro padri. Lo strumento elettorale, nel caso specifico, mi appare più come un illusione che una vera opportunità di incidere nella propria vita come in quella di un Paese che non si vive nel quotidiano. Anzi, lo status quo diviene alquanto paradossale visto che, mentre un australiano può votare per il Parlamento di uno Stato sconosciuto, il sottoscritto – ad esempio – nonostante passi la metà della sua vita ad Amelia dove versa imposte salate – e dove usufruisce dei servizi locali molto meno rispetto ai residenti – non può avere voce in capitolo sulle scelte dell’amministrazione comunale. Insomma, sarà che ho il pallino per il liberalismo anglo-americano ma rimango della convinzione che la migliore chiave interpretativa per diramare un certo tipo di problematiche risieda sempre nell’espressione: “No taxation ‎without representation”.‎