-di Simone Paris- Sono le ore venti del 31 marzo, in una sorta di pesce d’Aprile anticipato, quando il ministro allo sviluppo economico Federica Guidi rassegna le proprie dimissioni dalla poltrona governativa.
Le intercettazioni delle telefonate con il suo compagno, l’ingegner Gianluca Gemelli, non le hanno lasciato scampo: l’ormai ex ministro, citando anche Maria Elena Boschi, forniva rassicurazioni sull’inserimento di un emendamento all’interno del decreto Sblocca Italia che avrebbe favorito estrazioni petrolifere nel giacimento di Tempa Rossa, nel cuore della Basilicata; un’operazione fortemente caldeggiata dallo stesso Gemelli che avrebbe potuto beneficiare di alcuni contratti in subappalto.
Le polemiche, fortemente aizzate dal Movimento 5 stelle, sono divampate immediatamente e Federica Guidi ha preferito farsi da parte. “Caro Matteo sono assolutamente certa della mia buona fede e della correttezza del mio operato. Credo tuttavia necessario, per una questione di opportunità politica, rassegnare le mie dimissioni da incarico di ministro. Sono stati due anni di splendido lavoro insieme. Continuerò come cittadina e come imprenditrice a lavorare per il bene del nostro meraviglioso Paese.”; questo il comunicato con cui l’imprenditrice ha rassegnato le proprie dimissioni.
Una decisione che non ha trovato alcuna opposizione da parte del premier Matteo Renzi, in missione negli Stati Uniti: “Rispetto la sua scelta personale sofferta, dettata da ragioni di opportunità che condivido. Procederò nei prossimi giorni a proporre il suo successore al capo dello Stato”.
Questo rappresenta l’ennesimo episodio e l’ennesima narrazione della leadership renziana, un modo di fare e un insieme di atteggiamenti che non trova eguali nella storia politica italiana.
Renzi domina incontrastato la scena politica con una grande abilità politica e soprattutto comunicativa: tutte le iniziative del governo, anche se proposte da NCD, sono state direttamente intestate dal premier e risulta molto difficile per gli alfaniani rivendicare delle proposte come proprie. Renzi occupa il palcoscenico mediatico solo in presenza di eventi positivi e i ministri ci mettono la faccia solo in occasione di eventi negativi, che a volte pagano direttamente con la loro poltrona (vedi il caso di Maurizio Lupi).
Ciò denota sicuramente  una grande abilità comunicativa e di marketing: Renzi appare nelle gallerie della Salerno-Reggio Calabria, in macchina a percorrere la Variante di Valico, all’inaugurazione della Nuvola di Fuksas quasi ultimata, ma non appare nella Liguria alluvionata, alla conferenza stampa dopo che la polizia manganella gli aderenti alla Fiom.
La leadership renziana può, quindi, riassumersi in un semplice concetto: totale occupazione del campo mediatico in caso di eventi positivi e abbandono dello stesso di fronte ad eventi negativi.
Inevitabile un confronto con Silvio Berlusconi, ultimo dei grandi leader politici italiani: Berlusconi nasce in un periodo in cui le varie aree culturali ed ideologiche erano ancora nette e distinguibili, scende in campo per la rivoluzione liberale e contro l’area socialdemocratica, evoluzione del PCI; Renzi si trova ad operare in un periodo in cui le varie categorie ideologiche sono venute meno o comunque fortemente annacquate.
Emblematico di ciò è stato l’atteggiamento della piazza verso l’articolo 18: quando Berlusconi ha provato a modificarlo, si sono riversati in piazza milioni di persone, ci sono stati girotondi e scioperi di ogni genere, mentre Renzi ci è riuscito senza colpo ferire.
Inoltre Berlusconi aveva un background completamente differente da quello renziano: era un affermato imprenditore e si impegna in politica solo per amore dell’Italia e per preservarla dall’invasione rossa e il suo ventennio è stato caratterizzato da un bipolarismo incentrato sul pro o sul contro la sua figura; Renzi è una figura molto meno ingombrante per quanto riguarda la biografia individuale, è un amministratore locale divenuto leader nazionale e ciò gli permette di avere mani molto più libere e una possibilità di manovra migliore.
L’avvento della figura di Berlusconi e tanti altri eventi hanno modificato la geografia della politica italiana, modificando l’idea del partito così come era nella Prima Repubblica, facendolo divenire un’entità personalistica. Il collante che tiene uniti gli elettori di un partito è diventato principalmente il leader.
I leader intesi come celebrità e gli elettori come fan sono un fenomeno che può risvegliare interesse nella politica da parte di fasce di elettori disinteressati (come si è dimostrato alle elezioni europee del 2014, in cui il PD ha raggiunto il 40%), ma al tempo stesso può precipitare in un contrappasso: se il leader non ha la capacità di trasformare la comunità di fan in un gruppo di persone che condivide valori e idee, allora il sostegno, benché entusiastico nella fase iniziale, non è destinato a consolidarsi.
La fiducia politica, al giorno di oggi, è riposta nel leader e non in un programma derivante da chissà quali valori o ideologie. Questo fenomeno rende i leader molto esposti mediaticamente e molto fragili e la loro durata sul palcoscenico politico-mediatico è destinata ad abbreviarsi progressivamente se non mantengono fede alle promesse fatte e difficilmente si assisterà ad un ventennio renziano, non tanto per demeriti suoi, quanto per ciò che la politica è diventata oggi: consumismo estremo di leader, quali fossero oggetti di consumo di massa.
In futuro assai prossimo -forse anche le elezioni del 2018- ci sarà inevitabilmente la necessità di un’alternativa a Renzi e come centrodestra è fondamentale individuare un nuovo leader empatico con un messaggio forte e vincente che sia in grado di fidelizzare i cittadini-elettori-fan-consumatori sempre più svogliati e delusi dalla politica.

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