Tomasz, il più giovane collaboratore della nostra squadra racconta la sua esperienza di figlio di immigrati con cittadinanza da appena un anno. La sua contrarietà allo Ius soli e la sua critica alla Chiesa sono un vero e proprio manifesto di emozioni e riflessioni profonde.

A cura di Tomasz Kociuba .“Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”(Matteo 4,4). Senza dubbio l’Italia non vivrà a lungo delle parole che escono dalla bocca di tanti vescovi italiani, accecati come sono dal secolarismo della politica a cui proprio non sanno resistere. La Cei ha infatti pronunciato il proprio verdetto nella discussione intorno all’approvazione dello Ius Soli, il diritto di cittadinanza per nascita, dipingendolo come “indispensabile per l’integrazione e per una giusta crescita”. Da figlio di immigrati direi che debba proprio pronunciarmi: cittadino polacco, nato in Italia, e cittadino Italiano da meno di un anno. Sono tra le 205.000 “New entries” dell’elettorato italiano del 2016, formato da diciotto anni di scuola e cultura italiana che tutto mi ha dato tranne che problemi “civili”, quelli che Partito Democratico e il fido alleato ecclesiastico dicono di risolvere con la concessione della cittadinanza, come se per insultare qualcuno si controlli prima la provenienza. Per non parlare delle tante difficoltà che Boldrini e compagnetti deliranti vari non smettono di evidenziare. Più che evidenziarle, comincino a trovarle queste difficoltà, dato che in diciotto anni da “non italiano” non ho mai avuto problemi. Anzi, l’unica “difficoltà” di cui mi sono preoccupato è stata quella di non dimenticare il mio duplice passato, stregati come siamo in famiglia dalla bellezza dell’Italia. San Giovanni Paolo II, mio connazionale, ha trovato uno splendido significato antropologico dietro l’identità di un popolo e, nel mio caso, di un cittadino. L’amore che si ha per il paese in cui si nasce ricorda molto quello di un figlio per la propria madre (per cui spesso si dice “Madrepatria”). Ogni nazione, infatti, è madre di un popolo. Ma nel mio caso l’amore per l’Italia ha bisogno di essere maturato, riflettuto, ponderato, compreso. Si nasce in seno a una madre splendida, tricolore, solare e magnifica, ma con la consapevolezza di essere figli di un popolo che combatte da secoli con i giganti e che sempre ti attende, al di là delle Alpi e dei Sudeti, senza che tu possa però tornare, tanto sei legato e tanto devi alla tua terra natia. Mi sento, ora come sempre piccolo, solitario, allontanato dalla mia “madre naturale” che mi ha fatto nascere qui, che mi ha dato all’Italia, fiera di poter avere un figlio tra i poeti, i santi e i navigatori. A lei si rende onore e grazie per ciò che incarna nelle parole che uso ogni giorno, per la storia ancora più ampia che mi ha donato e che posso dare ai miei concittadini italiani che mi affiancano da veri fratelli e da veri padri. È il popolo sovrano che ti fa entrare “nel branco”, è un’iniziazione che dura diciotto anni, un tempo necessario per maturare la tua vera coscienza e la tua vera identità. Dalla tua maturità deriva una degna sovranità e una retta cittadinanza. Non è tanto lo “Ius” che va riformato, quindi, ma è il “Mos”, la vera essenza profonda della nostra italianità secolare, i valori e le fondamenta della nostra vita che ci rendono non più semplici ragazzi, non più bambini, ma uomini puri, liberi, pronti a servire questo Paese che ha bisogno di forza e di vita vera. Una Chiesa libera, sovrana e, soprattutto, Madre, è certamente la Patria di ogni uomo. Essa ha le braccia aperte, come Cristo sulla Croce, che sottoscrivono la cittadinanza universale della Città di Dio descritta da Sant’Agostino (non a caso “Padre della Chiesa”). Questo principio fondamentale sta alla base dell’ecumenismo e dell’attenzione della Chiesa rivolta a tutti i popoli. Ma questo non significa affatto ingerenza politica. Come scriveva Benedetto XVI “la Chiesa ha molte volte osato intervenire nella storia come Istituzione”. Eppure è importante ricordare che, nella teologia storica, è Cristo che agisce nella storia come Re e come Giudice, non la Chiesa, se non come puro strumento. A quanto pare gran parte del clero se lo è dimenticato. Il protagonismo e il secolarismo di molti rappresentanti di questa Santa Istituzione uccide e spreca il tempo necessario per il discernimento e la preghiera per cui sono chiamati ed è chiamata ad esistere. Piegata dalle false ideologie di redenzione terrena, inginocchiata non più davanti a Dio, ma davanti a uno strano pauperismo di massa, pacifismo post-sessantottino, mania di progresso e di partecipazione civile, la Chiesa sta perdendo la religiosità che lei stessa ha scoperto e delineato e sulla quale può esclusivamente sorreggere l’universalità dell’uomo verso Dio. È il suo ruolo che la Chiesa sta abbandonando. E come lei abbandona il suo ruolo, l’umanità stessa si sente confusa e non riesce più a stare al proprio posto. Con questa presa di posizione essa è entrata nel delirio che caratterizza il dibattito su questa assurda e inutile legge, che di certo non tutela nessuno, se non nella misura delle tessere di partito. Se alla Chiesa interessa tanto che gli Africani abbiano i loro diritti, torni ad essere missionaria. Se vuole parlare e avere l’ultima parola, parli degli ultimi, dei suoi “onorevoli”, dei suoi missionari, che perdono la vita in quei paesi dove i diritti non esistono proprio. Non si limiti a mostrare il suo lavoro in Africa solo negli spot pubblicitari dell’8xmille, ma torni a parlare della sua vera vocazione e del suo vero ruolo nella storia. Si pronunci sui temi etici, non sulle questioni burocratiche e di partito. Smetta di appoggiare pubblicamente abortisti, assassini, comunisti, cani e porci e torni con chi, a destra, è in difficoltà e non sa dove andare. Non faccia finta di niente: evangelizzi gli ambienti che vogliono essere un bene per il nostro Paese. Si schieri con l’Italia. L’Italia ha bisogno della Chiesa. L’Italia ha bisogno di Dio.