big-A cura di Francesco Severa- Trovarsi a passeggiare tra i vicoli di Roma in tarda notte, per raccogliere i pensieri. Arrivare in via dei Crociferi e iniziare ad allungare il passo, in preda alla frenesia di voltare un’ennesima volta quell’angolo così squadrato che la strada segna con piazza di Trevi. Scoprire allora, di nuovo, quella meraviglia, solo da qualche giorno spogliata della corazza di metallo e plastica necessaria per il suo restauro. Oceano imperioso sul suo cocchio a forma di conchiglia, che deciso comanda i due suoi cavalli, uno agitato e uno placido, ad imitare gli umori del mare; l’acqua che scorre e zampilla. Eppure nemmeno l’infinita bellezza di quella fonte, che il Salvi ha scolpito nel travertino più di duecentocinquanta anni fa e che soldi “privatissimi” hanno restituito a nuova gloria, riesce fino in fondo a cancellare quel clima di profonda mestizia che avvolge la capitale d’Italia. A guardare Fontana di Trevi in questi giorni si percepisce chiaramente la grande malinconia di una città infangata da indicibili accuse. Mafia. E’ di questo che si parla. Ripensare a quello che Roma ha sopportato in questi mesi di indagini e scandali lascia sgomenti. Si parte con le scene di arresti che sembrano prese direttamente da un film su James Bond; intercettazioni di farneticanti citazioni tolkeniane, mondi fantastici e rivendicazioni di potere alquanto puerili, ma soprattutto di dubbio valore probatorio, schiaffate a ripetizione sui giornali; Roma che diventa la città della mafia che non spara, ma che si permette di organizzare funerali sontuosi in pieno centro, segno di come ormai un popolo si possa condizionare a forza di carrozzelle e petali rossi dal cielo; l’assemblea capitolina decimata; un sindaco che prima viene commissariato dal suo stesso partito per incapacità comprovate di tenere il timone in mezzo a questo caos e poi viene dimesso manu militari, dopo che perfino il Sommo Pontefice si era scomodato a sottolinearne l’inadeguatezza. L’impatto sui mezzi di comunicazione di questa indagine, che oggi arriva a processo, non poteva essere più forte. E viene il dubbio che forse sia stato coscientemente cercato. Lungi dal voler dare adito a balle complottiste o ad occulte dietrologie, è evidente quanto tutta questa vicenda stia oggi mostrando nuovi e preoccupanti atteggiamenti, che rimandano, come ha detto il Presidente delle Camere Penali Italiane, Beniamino Migliucci, a “nuovi modi di organizzare l’impatto mediatico delle indagini e [a] un nuovo rapporto, inedito in parte, fra Politica e Magistratura”. A livello giuridico non è affatto semplice applicare il 416 bis al di fuori dei tradizionali ambiti di Cosa Nostra, della ‘Ndrangheta e della Camorra. Soprattutto in casi come questo, in cui l’associazione di tipo mafioso si celerebbe dietro una serie sistematica di azioni di corruttela, è molto più difficile provare la sussistenza della forza intimidatrice del vincolo associativo, in quanto tale elemento, costitutivo il reato secondo la fattispecie del codice, prevede l’esistenza di una riserva di violenza nel patrimonio associativo. Per quanto la Cassazione abbia per ora avallato, bocciando in Aprile i ricorsi di diversi arrestati, l’impianto accusatorio della procura – ha affermato che la forza intimidatrice può essere acquisita da una struttura che “con una sistematica attività corruttiva, esercita condizionamenti diffusi nell’assegnazione di appalti, nel rilascio di concessioni, nel controllo di settori di attività di enti pubblici o di aziende pubbliche” -, la magistratura giudicante, nelle prime condanne arrivate in applicazione dei riti speciali, ha già dato prova di grande parsimonia, valutando caso per caso la possibilità di applicare l’associazione di tipo mafioso. In una città in cui però gli episodi di corruzione sono una costante fin dai tempi di Cicerone, si potrebbe sospettare allora che l’utilizzo del 416bis non sia stato dettato tanto dalla necessità di applicare un corretto nomen iuris ai fatti di reato sotto inchiesta, ma al contrario non solo sia stato fondamentale per avere dei poteri di indagine più pervasivi, ma anche soprattutto per avere una risonanza mediatica esponenziale. Come poter infatti rinunciare ad un nome così evocativo – “Mafia-Capitale”- in questo nostro paese, dove dichiararsi “anti-mafia” è divenuto un esercizio di morale superiorità. Si ha quasi l’impressione di assistere ad un lucido utilizzo degli strumenti mediali in funzione legittimante l’esercizio dell’azione penale. Ecco allora che l’azione inquirente diviene lo strumento che ridisegna la morale della società: che stabilisce senza appello ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, senza le limitazioni della legalità codicistica. Anzi, in questa lotta contro il male, il codice penale viene interpretato ad uso e consumo di una verità preconcetta che le indagini non sono chiamate a verificare, ma solo a comprovare. Tutto questo in un clima da fine impero, in cui si cerca di far sembrare legittime forzature ineffabili, in nome di un’auto-prodotta situazione emergenziale, che i media sembrano continuamente alimentare. Porre su un’inchiesta il bollino mafioso – come lo chiama Giuliano Ferrara – significa renderla immune da qualsiasi critica, da qualsiasi contrasto, da qualsiasi ragionevole tentativo di indignarsi per una giustizia trasformata in gogna e indegna di un paese che vuole definirsi civile. Un’ideologia post-moderna, sempre per citare Migliucci, e inedita, che vede nel termine “mafia”, svuotato oramai di ogni riferimento certo alla realtà storica, lo strumento massimo di delegittimazione, e difronte alla quale perfino la politica alza colpevolmente le mani. Ecco, la politica. Davanti al caos romano si assiste ad una passiva desistenza, che vede nel ricorso ai grigi burocrati l’occasione per defilarsi nella speranza che le indagini si indirizzino altrove. Grigi burocrati o angelici magistrati prestati alla supplenza nemmeno ratificata dalle urne, che servono ad occupare assessorati su misura, come quello alla legalità – come se la legalità invece che un’entità astratta sia qualcosa da gestire come il traffico degli autobus. La politica che non si fida nemmeno di se stessa, ma solo di solerti commissari da sistemare sull’alto del Campidoglio, fa sfumare ogni speranza di riportare questa indecorosa babele alla ragione. Nonostante tutto però, qui a piazza di Trevi l’acqua continua a scorrere; i pochi turisti della notte ancora gettano monetine per assicurarsi il sublime destino di far ritorno in questa città dalla bellezza eterna. Una bellezza forse guastata da giochi di ruberie e anche, lo dobbiamo dire, dal gracchiare di qualche corvo al di là del biondo Tevere; ma guastata anche dal tentativo di piegare la realtà a interessi di politica criminale, appaltata a chi non spetterebbe. Una bellezza che, malgrado questo, testimonia però sempre il peso di un’eternità che ha masticato i secoli e che per noi non può che essere l’unica grande consolazione.