-di Miro Scariot- Il fatto che l’Italia non vada bene non è una novità, ogni volta che L’ISTAT pubblica i propri dati la materia di discussione preferita dalla classe dirigente del nostro paese è la “battaglia del decimale” di troppo o in meno, a seconda dello schieramento di appartenenza, relativo alla crescita del PIL nazionale.
Ciò su cui non si può proprio dubitare, invece, è l’indifendibile fallimento delle politiche del lavoro e formative palesemente incapaci di eliminare il mismatch presente tra domanda ed offerta di lavoro in un contesto dove gli over-educated sono in costante aumento.
Il nostro è un paese dove gli investimenti nella cultura non eccellono in termini quantitativi generando, ragionando in termini aziendalistici, una minore redditività dell’investimento in educazione poiché molti giovani laureati si trovano a dover scegliere tra l’essere NEET con la corona d’alloro oppure lavoratori over-educated ovvero troppo istruiti o con un curriculum non corrispondente al lavoro svolto.
Questo rende infruttuose le risorse investite dallo Stato nei loro confronti poiché impossibilitati ad offrire un plus tramite l’utilizzo delle proprie competenze le quali sempre più spesso finiscono all’estero a beneficio del paese ospitante che godrà di forza lavoro qualificata senza aver investito nulla sulla sua formazione.
Le cifre dei “troppo istruiti” sono riportate da “Il Sole 24 Ore” che, nel Marzo 2016, ha pubblicato una ricerca la quale mostra come questo fenomeno colpisca ben 28% dei laureati provenienti dagli studi più disparati alzando l’allerta su quello che, a mio modesto parere, risulta essere il fallimento del modello universitario “3+2” introdotto nel 1999 il quale genera nei giovani aspettative impossibili da soddisfare a fronte di studi comunque impegnativi e costosi per le famiglie un titolo da “vorrei ma non posso”; incapace di incontrare le esigenze del mercato.
A rincarare la dose sulle incongruenze tra titolo acquisito e lavoro svolto ci pensa Almalaurea pubblicando un’indagine condotta sui laureati 2009 a cinque anni di distanza dal titolo dove emerge che la maggioranza (50,9%) utilizza in misura ridotta o per niente le competenze acquisite con la laurea (con punte oltre il 60% per le discipline umanistiche) e oltre il 40% non è pienamente soddisfatto dell’efficacia del titolo nel lavoro svolto.
Le mosse sbagliate dalla politica sono state molteplici e la crisi economica ha contribuito ad evidenziare certe inadeguatezze che, nel momento di difficoltà, non è stato possibile nascondere dietro alla crescita macroeconomica totalmente assente nella contingenza della crisi globale. Queste lacune politiche sono state spesso giustificate con la transitorietà dei vari esecutivi i quali, nel loro succedersi, si sono caratterizzati per essere stati nominati d’urgenza o partoriti successivamente ad accordi politici risultando quanto di più distante dalla necessità di porre fine ad una condizione asfittica ed esasperante per molti giovani mediante riforme lungimiranti che non puntino solo all’abbassamento del costo del lavoro, mediante l’introduzione dei voucher per esempio, ma che siano capaci di rendere competitivo il singolo come l’intero paese offrendo a questo la forza lavoro e le competenze per riemergere dalla palude della recessione.
Appare evidente che allo stato attuale gli unici ad essere rottamati sono i giovani, il capitale umano più prezioso, troppo spesso banalizzati e sbeffeggiati definiti in ordine cronologico bamboccioni, choosy e sfigati (forse questo è vero data la sfortuna nell’essere mal governati) la cui colpa, senza cadere nel vittimismo, è quella di essere finiti in un pantano che ne smorza entusiasmi e forze. La grande maggioranza dei giovani ha cercato e cerca lavoro, sono gli italiani i giovani europei con un maggiore mobilità territoriale poiché abbandonano un paese dove lavorare e stringere i denti con salari insufficienti e “contratti barzelletta” non basta a garantirsi l’accesso ad una formazione post-laurea o post-diploma di qualità senza il sussidio della famiglia che, benché bistrattata da certe retoriche che con arroganza si definiscono progressiste, rimane l’unica vera “istituzione” a cui un individuo possa affidarsi per porre le basi del proprio futuro.
Serve forza, coraggio e cuore per continuare a crescere per investire su noi stessi per non rendere la lettera di Michele, il giovane disoccupato suicidatosi ad Udine nei giorni scorsi, un messaggio inutile frutto di un disagio diffuso in una fetta della popolazione disillusa e stanca di vagare senza meta rinunciando alla pianificazione del proprio futuro costretta ad accettare passivamente il presentismo che pare essere l’unica ancora di salvezza per superare le frustranti incertezze di percorsi inconcludenti.
Appare quindi fondamentale raccogliere le forze e generare una riforma del mercato del lavoro favorendo la formazione professionale mirata e complementare alle nozioni acquisite nel percorso di studi per riuscire in questo dobbiamo trarre spunto dalle best-practices europee cambiando l’approccio al problema e probabilmente i membri della classe dirigente perché, come ha detto il Ministro Poletti riferendosi ai giovani italiani emigrati, “sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi”.